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Ermeneutica trascendentale ed ermeneutica ontologica
Il contributo che la filosofia ermeneutica può apportare alla psicoanalisi in particolare, ed alla psicoterapia in genere, può tuttora offrire importanti elementi di riflessione e non secondari principi di comprensione dell’“alterità”. La questione ermeneutica sorge in effetti, come ha rilevato Ricoeur (1), da una consapevolezza analoga a quella della psicoanalisi, e cioè dalla considerazione che il rapporto con l’“altro” sul piano cognitivo è un rapporto essenzialmente ermeneutico. In quanto tale, esso è attraversato da una duplice tensione: da una parte, la consapevolezza che l’alterità può essere comprensibile solo in quanto l’interprete possiede già una qualche comunione con ciò che deve interpretare; ma dall’altra è avvertito che tale comunione non è totalmente trasparente, e che per questo richiede un lavoro progressivo di “interpretazione”, ovvero di ermeneutica. Se l’“l’altro” fosse totalmente un estraneo, non vi sarebbe la possibilità di alcuna mediazione interpretativa; d’altro canto tale mediazione sarebbe pure inutile se “l’altro” fosse totalmente e immediatamente trasparente. Poiché inoltre questo lavoro di interpretazione dell’altro avviene essenzialmente attraverso il linguaggio, ciò rende ancora più vicine l’ermeneutica e la psicoanalisi.

Può sembrare allora che l’ermeneutica si venga a trovare in una impasse senza via d’uscita. Ed in effetti le diverse prospettive dell’ermeneutica contemporanea possono essere considerate come dei tentativi di impostare nel modo più appropriato possibile questa questione. All’interno dell’odierna riflessione ermeneutica possiamo in effetti distinguere un’ermeneutica “trascendentale”, più legata all’esigenza eidetica della fenomenologia (Ricoeur); un’ermeneutica “ontologica”, che mette maggiormente in luce la dimensione della comunanza tra l’interprete e il suo oggetto (Heidegger); e infine un’ermeneutica “metodologica”, che sottolinea la necessità, in ogni processo ermeneutico che voglia salvaguardare la “verità” dell’interpretazione, di ben precisi canoni, principi e metodi (Betti). Queste diverse “forme” di ermeneutica, come illustra la magistrale lezione di Ricoeur, non devono essere viste come alternative ma piuttosto come complementari, apportando ciascuna importanti contributi di pensiero.


La lezione ermeneutica di Ricoeur: “Il Cogito è all’interno dell’essere”
Paul Ricoeur è il pensatore che più di altri ha saputo coniugare la dimensione trascendentale dell’ermeneutica con la sua insopprimibile dimensione ontologica e con quella metodica.
La complessità della “via lunga” (le long dètour) di Ricoeur, come egli stesso amava definirla in rapporto a quella che considerava la “via breve” dell’ermeneutica ontologica heideggeriana, potrebbe essere sintetizzata nella celebre affermazione: «il Cogito è all’interno dell’essere e non l’inverso»(2), la quale costituisce una nuova rivoluzione copernicana della filosofia, nel senso che, diversamente da tutta la filosofia moderna ispirata al cogito cartesiano, «l’essere che si pone nel Cogito deve ancora scoprire che l’atto stesso col quale si strappa alla totalità, continua a partecipare all’essere che interpella in ogni simbolo»(3).

Ricoeur cerca di restituire al cogito cartesiano lo spessore dell’esistenza, sottraendolo al suo ruolo di ritenersi solo trasparenza del soggetto e fonte del giudizio, facendo così della coscienza unicamente la sede di operazioni concettuali, e dimenticando il sum dell’io penso, ovvero la radicazione del cogito nell’esistere corporeo e personale(4). L’ermeneutica rappresenta allora quella riflessione critica che si propone di togliere il cogito «dall’olimpica serenità della chiarezza e della distinzione per coinvolgerlo nella tormentata avventura dell’esistenza»(5). Come scrive Ricoeur: «Il filosofo educato alla scuola di Cartesio sa che le cose sono dubbie, che non sono come appaiono; ma non dubita che la coscienza non sia così come appare a se stessa; in essa senso e coscienza del senso coincidono; di questo dopo Marx, Nietzsche e Freud, noi dubitiamo. Dopo il dubbio sulla cosa, è la volta per noi del dubbio sulla coscienza»(6).

Ciò comporta, anche per la filosofia religiosa, che «il cogito come affermazione di autonomia è colpa, errore e peccato, è la caduta, o meglio il rifiuto di partecipare all’Essere, causa della situazione angosciosa e drammatica dell’essere umano»(7). E la costante attenzione rivolta da Ricoeur alla psicanalisi di Freud assume allora soprattutto il significato di riconoscere nella psicanalisi la demistificazione di quella filosofia della coscienza e del cogito che si pretendeva pura e al di sopra dell’essere, e che quindi restava incapace di manifestare “che cosa noi siamo”, e da quali mondi precoscienziali e precategoriali siamo realmente attraversati. E poiché questo mondo dell’essere che “precede” il cogito, e in cui il cogito si trova ad essere, può essere compreso solo a partire dai simboli che influenzano «radicalmente i sogni dei suoi giorni e delle sue notti, il suo assetto inconscio e conscio»(8), l’interpretazione dei simboli diviene il centro dell’ermeneutica di Ricoeur. Scrive Ricoeur: «Se il desiderio è ciò che non è nominabile, esso è originariamente volto verso il linguaggio; vuole essere detto; è in potenza di parola […] concetto limite al confine tra l’organico e lo psichico»(9). E questo perché «l’esistenza scoperta dalla psicanalisi è quella del desiderio: è l’esistenza come desiderio, e questa esistenza è rivelata principalmente in un’archeologia del soggetto»(10). Freud ha svelato allora che «il realismo dell’inconscio, il trattamento topografico ed economico delle rappresentazioni, dei fantasmi, dei sintomi, e dei simboli, appaiono finalmente come la condizione di un’ermeneutica liberata dai pregiudizi dell’ego»(11).

Ma Ricoeur, a differenza di Freud, ritiene che «il simbolo dà di che pensare»(12), perché esso lega l’uomo non solo al suo inconscio, ma «lo lega ontologicamente con un universo relazionale. Egli conosce ciò che non si può ridurre in parole, che non si può comprendere»(13). In tal modo l’ermeneutica deve passare da un atteggiamento puramente “fenomenologico”, e quindi descrittivo ed eidetico, nei confronti del simbolo, ad un comportamento autenticamente “ermeneutico”, capace di collegare il simbolo a tutta la ricchezza dei suoi significati, alla ricerca piena della sua verità. E ciò fino alle soglie del “sacro”, perché “l’esperienza simbolica collega l’uomo col sacro»(14). Ricoeur, anche con l’ausilio della psicanalisi, assegna così «l’anteriorità del piano ontico rispetto al piano riflessivo, la priorità dell’ “io sono” sull’“io penso”»(15). Scrive Ricoeur: «Tale è, nel suo principio e nella più vasta generalità, la radice del problema ermeneutico. Lo pongono, da una parte l’esistenza di fatto del linguaggio simbolico che fa appello alla riflessione, ma anche, in senso inverso, l’indigenza della riflessione che fa appello all’interpretazione: ponendo se stessa, la riflessione comprende la propria impotenza a superare l’astrazione vana e vuota dell “io penso” e la necessità di ricuperare se stessa decifrando i propri segni perduti nel mondo della cultura. Così la riflessione comprende da sé che non è innanzitutto scienza, e che, per dispiegarsi, le è necessario riprendere in se stessa gli opachi, contingenti ed equivoci segni, che sono dispersi nelle culture in cui il nostro linguaggio si radica»(16). A differenza della psicanalisi, quindi, Ricoeur ritiene che l’economia delle pulsioni non sia sufficiente per una «interpretazione amplificante, voglio dire una interpretazione attenta al sovrappiù di senso, incluso nel simbolo, che la riflessione aveva il compito di liberare nello stesso tempo in cui essa doveva arricchirsene […]. Rimane che questa interpretazione amplificante si opponeva sempre, senza dirlo e senza nemmeno saperlo, a una interpretazione riduttrice»(17). Viceversa, per Ricoeur «tutti i simboli della colpevolezza, l’errare, l’accecamento, la mescolanza, la caduta, dicono la situazione dell’essere dell’uomo nell’essere del mondo; il compito è allora quello di elaborare, a partire dai simboli, concetti esistenziali, e cioè non soltanto delle strutture di riflessione, ma strutture dell’esistenza in quanto l’esistenza è l’essere dell’uomo»(18).

All’ermeneutica dell’ “effettività” di Heidegger fa da riscontro l’ermeneutica del simbolo di Ricoeur, entrambe elaborate, al di là delle differenze, per comprendere a fondo ciò che l’uomo effettivamente è. Ricoeur non rompe mai né con la fenomenologia né con la filosofia della riflessione generata dal cogito cartesiano, ritenendo opportuno piuttosto integrarle entrambe come momenti del cammino di un’ermeneutica del simbolo. Riflessione e interpretazione costituiscono infatti per Ricoeur due momenti complementari di un cammino di phronesis ermeneutica che integra il cogito con la consapevolezza che la situazione concreta dell’uomo non è solo quella di essere il centro della sua esistenza, ma anche di essere diviso in se stesso, smarrito nel mondo, separato dagli altri. La scoperta freudiana dell’inconscio assume proprio questo significato. Ma nell’ermeneutica di Ricoeur l’interpretazione del simbolo non può solo essere “regressiva”, non può configurarsi solo come un cammino verso l’arcaico, ma deve essere anche demistificatrice e restauratrice, capace quindi di andare, proprio a motivo della sovrabbondanza semantica del simbolo, dall’archeologia alla teleologia e l’escatologia. L’ermeneutica che interpreta la coscienza attraverso i suoi simboli, diviene allora capace da una parte di volgersi al passato come condizione del presente, ma capace anche di aprire il presente al futuro, e ad una rinnovata e sanatrice — sia dal punto di vista psichico che etico — significatività.

L’ermeneutica diviene in tal modo anche capace di interpretare non solo il “volontario”, ma anche “involontario”, al fine di «accedere ad un’esperienza integrale del cogito, fino ai confini dell’affettività più confusa»(19), e quindi di comprendere l’esistenza anche come “corpo”, realtà che lo stesso Husserl non avrebbe «preso sul serio»(20). E questo perché la fenomenologia, nonostante la tematizzazione della Lebenswelt, si limiterebbe ad esplicitare le potenzialità intenzionali del cogito dal punto di vista eidetico-trascendentale, ma non penserebbe mai il cogito anche come “volontà” in cui è presente anche l’“involontario”, ovvero l’irrazionale, il non-senso, l’oscuro, il mistero, l’indicibile nella chiarezza del cogito. In altri termini, la fenomenologia pura sarebbe incapace di pensare il male e la sua simbolica(21). E se anche in una prima fase Ricoeur ritiene di dover fare della corporeità l’oggetto di una intenzionalità fenomenologica, «il progetto ricoeuriano di una filosofia della volontà va oltre la prospettiva di un’eidetica del volontario e dell’involontario»(22).

La via lunga dell’ermeneutica di Ricoeur, al fine di pervenire ad un’interpretazione veritativa dell’essere dell’uomo, percorre allora la strada tortuosa dell’interpretazione dei simboli attraverso i quali lo sforzo per esistere trova espressione significativa. Enrique Dussel sottolinea giustamente come la critica di Freud presupponga in realtà, in Ricoeur, il passare attraverso Freud, e quindi attraverso un’ermeneutica del desiderio, dei simboli, della cultura(23). In tal modo l’ermeneutica di Ricoeur diviene mediatrice tra un’ermeneutica che potremmo chiamare trascendentale (perché legata alla dimensione eidetica della conoscenza) e un’ermeneutica ontologica (legata invece, come in Heidegger, ad una concezione della comprensione come precostituita dalla situazione dell’interprete), e quindi tra la fenomenologia e l’ontologia(24).
Ricoeur tuttavia si mostra in più punti critico nei confronti dell’ermeneutica ontologica di Heidegger, pur assumendone le istanze. Per Ricoeur, la “via breve” dell’ermeneutica di Heidegger «rompendo con i dibattiti di metodo, si colloca immediatamente sul piano di un ontologia dell’essere finito, per ritrovarvi il comprendere non più come un modo di conoscenza, ma come un modo d’essere»(25). L’aspetto metodologico dell’ermeneutica, analogamente alla sua dimensione eidetico-trascendentale, è invece importante per Ricoeur, che recupera in tal modo sia le istanze della filosofia analitica del linguaggio sia quelle dell’epistemologia. Si comprende allora come Ricoeur da una parte non sottovaluti la dimensione ontologica dell’ermeneutica di Heidegger, ma intenda in realtà arricchirla — attraverso una “via lunga” — con gli apporti che possono provenire da tutte quelle discipline che praticano l’interpretazione in base a criteri metodologici. Questa preoccupazione “metodologica” è ciò che allontana Ricoeur da Heidegger, avvicinandolo piuttosto ad Emilio Betti, per il quale l’ermeneutica doveva piuttosto costituire una “teoria generale dell’interpretazione” su basi metodologiche. E per questo anche, all’opposizione gadameriana tra “verità” e “metodo”(26), Ricoeur preferisce contrapporre la coppia non antitetica ma complementare di “verità e metodo”, sempre alla ricerca di un cammino della filosofia in dialogo con le scienze, con le diverse metodologie dell’interpretazione, per una sintesi tra ermeneutica ontologica, ermeneutica trascendentale ed ermeneutica metodologica. L’ermeneutica metodica di Ricoeur(27), come afferma Jervolino, non è un’ermeneutica oltre l’ontologia, ma vuole costituirsi come più radicale via verso l’ontologia: «Il sé di Ricoeur è un sé che si descrive, si narra, si riconosce oggetto e soggetto del discorso etico, si interroga infine sul modo di essere. La vita del soggetto diventa il discorso vivente nel quale in molteplici modi si dice il sé e il suo altro»(28). Ricoeur non rifiuta quindi l’ontologia, ma di essa scrive che è come «la terra promessa per una filosofia che comincia col linguaggio e con la riflessione; ma come Mosé, il soggetto che parla e riflette può soltanto scorgerla prima di morire»(29).

Phronesis e ontologia dell’esistenza
Ora, è proprio la tensione tra ermeneutica trascendentale, ermeneutica ontologica ed ermeneutica metodica che può costituire il contesto entro il quale diviene di nuovo attuale, e non solo per la psicanalisi, il contributo dell’ermeneutica ontologica di Heidegger. La quale, a differenza di quanto ritiene Ricoeur, che prende in considerazione prevalentemente Sein und Zeit, deve essere intesa soprattutto, partendo dai Zollikoner Seminare. Protokolle- Gespräche-Briefe (30), come un’ “ermeneutica della effettività”, che ne svela tutta la ricaduta e la componente “ontica”, indispensabile per l’antropologia e le scienze umane.

Tra il 1959 e il 1969 Heidegger tiene a Zollikon una serie di seminari per psichiatri, psicanalisti e medici, sollecitato a questo confronto un decennio prima da Medard Boss, medico psichiatra e psicoanalista svizzero, il quale aveva intuito l’importanza che l’ermeneutica heideggeriana rivestiva per l’analisi. Non fu estranea a questo interesse una motivazione di carattere autobiografico. Privato, dopo la guerra, della sua dignità di docente, da parte della Commissione di epurazione per l’Università insediata a Friburgo, a motivo della sua adesione al Terzo Reich manifestata nel celebre discorso di insediamento come Rettore dell’Università di Berlino, profondamente esaurito e depresso, da tempo ormai Heidegger aveva fatto ricorso alle cure di uno psichiatra, il dottor Gebsättel, trovandovi, come egli si espresse in seguito, un aiuto e un sostegno che “umanamente” lo avevano confortato(31). L’incontro di Heidegger con Medard Boss avviene in realtà per la prima volta nel 1947, ma si intensificherà tra il 1959 e il 1969, dando luogo a una serie di colloqui e seminari che lo stesso Boss pubblicherà nel 1987 con il titolo di Zollikoner Seminare. Questi seminari contengono non solo i colloqui avuti con Heidegger a Zollikon intorno al tema del rapporto tra ermeneutica e psicanalisi, ma anche le lettere che nell’arco degli ultimi decenni hanno segnato la crescente amicizia tra lo psichiatra Boss e il suo paziente, il filosofo Heidegger. Fin dalla Prefazione dell’opera Boss vuole difendere l’autore di Sein und Zeit, l’opera in cui, egli scrive, «giungevano alla parola idee fondamentalmente nuove, inaudite circa l’esistere umano e il suo mondo»(32), dall’accusa di essere stato nazista. Secondo Boss infatti Heidegger, nel suo periodo iniziale, era certamente incorso nel fraintendimento di credere «che Hitler e le sue masse fossero in grado di erigere un baluardo contro l’onda della notte spirituale montante dietro di loro nella figura del comunismo politico»(33). Ma ciò nonostante, prosegue Boss, l’opera di Heidegger, così come mostrano peraltro i Seminari, è improntata a un così alto ideale umanistico da escludere «deliberate bassezze nei confronti del suo prossimo»(34), così come peraltro nulla è potuto emergere in tal senso nel processo intentatogli nel dopoguerra. L’onestà personale e professionale dello psichiatra Boss, avvalorata dalla sua nazionalità svizzera, gli permette anche di confessare di non sapere se egli stesso, in circostanze analoghe a quelle in cui si è trovato Heidegger, non sarebbe incorso nel medesimo errore. Da tutto ciò che si è potuto intentare contro la persona di Heidegger emerse solo che egli «era la persona più radicalmente calunniata che finora avevo incontrato; irretita in una rete di menzogne di molti suoi colleghi»(35), i quali non riuscendo a superare Heidegger sul piano del pensiero, cercavano di riuscirci attraverso attacchi personali. E ciò costituì per Boss uno stimolo ulteriore a dedicarsi con tutte le sue forze al “caso Heidegger”.

Fin dal 1947, e fino alla morte di Heidegger nel 1976, iniziò anche un’ininterrotta corrispondenza epistolare tra i due, dalla quale emerge un rapporto tra il paziente filosofo e il suo psichiatra, che forse non ha eguali nella storia dei trattamenti psicoterapeutici. Perché se Heidegger è pronto ad accogliere i suggerimenti medici di Boss, questi è ancor più sollecito nel far proprie le intuizioni che Heidegger gli rivolge proprio nel campo della psichiatria e della psicanalisi. Si può così affermare che ben più di Binswanger è stato proprio Boss ad aver recepito in modo corretto la lezione ermeneutica di Heidegger per la psichiatria. Lo stesso Boss attesta che il vero motivo per cui Heidegger si era dedicato per decenni, attraverso il suo medico, ai rapporti tra l’ermeneutica e la psichiatria e la psicanalisi, fosse dovuto al fatto che «egli vedeva la possibilità che le sue idee filosofiche non restassero nascoste solo nelle camere dei filosofi, bensì potessero tornare a vantaggio di molti più uomini, e soprattutto anche di quelli bisognosi di aiuto»(36). Tenendo conto dell’importanza del filosofo, a partire dal 1959 Medard Boss ritenne che fosse opportuno che in occasione delle visite che Heidegger faceva nella sua casa a Zollikon partecipassero 50-70 colleghi e studenti di psichiatria. Le visite di Heidegger duravano circa due settimane ed avevano la frequenza di due o tre volte a semestre. All’incontro con gli psichiatri e con gli studenti Heidegger dedicava tre ore due volte a settimana, preparandosi accuratamente il giorno prima. La trascrizione di questi incontri costituisce appunto il materiale dei Protocolli, i quali, secondo Boss, sono «un fondamento spirituale capace per il nostro fare di medici»(37). Heidegger seppe mostrarvi infatti la sua grandezza di umanità per il prossimo, provando «che non solo sapeva parlare e scrivere della suprema forma di umanità per il prossimo, l’aver cura precorrente, che amando disinteressatamente, libera l’altro per sé, bensì era anche pronto a viverla in maniera esemplare»(38).

La suddetta motivazione personale detterà ad Heidegger un interesse costante per la scienza psicoterapeutica, e costituirà anche il fondamento delle domande che egli successivamente, dal punto di vista dell’ermeneutica, porrà alla psicoterapia. Queste domande si incentrano tutte sulla questione di sapere se la psicanalisi e la psichiatria abbiano veramente a cuore l’“uomo esistente”, nell’effettiva realtà del suo Esserci, e che con tutta la sua sofferenza richiede soprattutto «che si diano dei medici pensanti, i quali non siano disposti a cedere il campo ai tecnici della scienza»(39). L’obiettivo di Heidegger, nel suo rapporto con la psichiatria e la psicoanalisi, è decisamente umanistico, nel senso che egli si propone di dare, con l’ermeneutica, non tanto un metodo quanto un “supplemento d’anima” alle scienze umane. In qualche modo Heidegger completa qui in senso “ontico” la celebre Lettera sull’umanismo(40), in cui la preoccupazione ontologica sembrava allontanarlo dall’effettiva realtà umana: «Esercitiamo la psicologia, la sociologia, la psicoterapia, per aiutare l’uomo di modo tale che l’uomo raggiunga la mèta dell’adattamento e della libertà nel senso più ampio. Ciò concerne in comune sia i medici che i sociologi, in quanto tutti i disturbi della relazione sociale e tutti i disturbi noxici del singolo uomo sono disturbi dell’adattamento e della libertà»(41). Ciò che deve essere al centro dell’interesse dello psicoterapeuta, dice Heidegger, è sempre l’uomo nella sua effettiva realtà, con i suoi bisogni, sofferenze, aspettative, desideri, gioie, e che in quanto tale sfugge ai canoni obiettivabili della scienza moderna, definita da Heidegger come una “dittatura dello spirito”, e in cui lo scienziato è ridotto unicamente ad essere un “operatore della calcolabilità”(42). La vera Sache della comprensione ermeneutica è l’uomo, e per questo l’ermeneutica ha il compito di offrire un supplemento d’anima alle scienze dell’uomo. L’umanismo di Heidegger capovolge il soggettivismo della modernità, che aveva fatto del soggetto e della coscienza il centro e la struttura trascendentale della conoscenza. Di fronte all’altro uomo, la coscienza trascendentale trasforma l’altro in oggetto, è incapace di comprenderlo come soggettività altra e diversa, lo “cosalizza” per analizzarlo non in ciò che è in sé ma con i modelli conoscitivi del trascendentalismo eidetico. Il compito dell’ermeneutica, per Heidegger, è invece quello di farsi realmente incontro all’effettiva realtà dell’altro uomo, per comprenderlo nel suo Esserci, abbandonando ogni pretesa di catturarlo in modo definitivo ed esaustivo, seppure in una ininterrotta tensione verso la “verità” dell’altro. È questa l’anima ermeneutica che Heidegger vuole immettere nella scienza psicoterapeutica. E che certamente può aiutare a comprendere con maggiore obietività la dibattuta questione dei Quaderni neri, con tutto ciò che essa comporta(43). L’ermeneutica, per Heidegger, deve farsi sempre consapevole che dove c’è un uomo c’è un destino, una libertà, un progetto, una provenienza, una storia, un’esistenza, un esserci unico e irripetibile nel mondo, nel tempo, un uomo con gli altri nella storia e nell’orizzonte dell’essere. Ciò significa che l’uomo è sempre, prima di tutto, apertura alla “possibilità” dell’esistenza nell’orizzonte dell’essere, e che la malattia psichica si articola fino ai limiti della stessa possibilità di esistere. Per questo la comprensione dell’esistenza effettiva dell’altro avviene sempre nell’orizzonte della comprensione dell’essere in cui siamo coinvolti. L’ermeneutica come “ontologia dell’esistenza”, manifesta qui tutta la sua dimensione phronetica. La maggior parte dei Seminari di Zollikon vengono infatti dedicati alla psicopatologia, per esortarla a rinunciare alla convinzione che «soltanto la scienza dia la verità obiettiva. Essa è la nuova religione»(44), perché in realtà senza l’Ausweisung ermeneutica dell’ente e dell’Esserci, è impossibile pervenire alla comprensione (Auslegung) dell’uomo. Non si tratta, per Heidegger, di rifiutare la scienza, ma di avere «un rapporto meditato e sapiente con la scienza, che ne consideri veramente in profondità i limiti»(45), capace quindi di non restare prigionieri dei limiti della scienza, ma di elevarsi a quella comprensione integrale dell’uomo che è compito anche della medicina e della psichiatria perseguire, ma che non è possibile raggiungere al di fuori di quella ermeneutica-ontologica che Heidegger propugna. Il che comporta che «per Heidegger anche l’uomo, che come psiche e soma è diventato oggetto della psichiatria e della medicina, va rivisitato alla luce di questa antropologia peculiarissima, che in quanto analitica dell’esserci che ne indaga il senso d’essere, è ontologia fondamentale nel senso di via regia all’interrogazione del senso dell’essere in generale, dove la domanda ‘antropologica’ si autotrascende nell’esibizione dello spazio ontologico, nell’intuizione dell’Essere che nel Ci trascende e tutto vi eventua, anche l’Esserci cui si rimette nel linguaggio»(46).

L’ermeneutica dell’effettività vuole condurre verso questa comprensione dell’Esserci effettivo dell’uomo, non afferrabile da una scienza che cosalizza il conosciuto per spiegarlo all’interno di categorie o modelli precostituiti, ma che può essere svelato solo nel suo rapporto di comprensione ermeneutica. Manifestare (Ausweisen), svelamento (Freilegung) e interpretazione (Auslegung) divengono quindi i concetti chiave dell’ermeneutica ontologica di Heidegger. La quale rappresenta anche una sottile critica della metapsicologia freudiana la quale, per Heidegger, presuppone la «totale spiegabilità dello psichico, in cui spiegare e comprendere vengono identificati» in modo analogo ai criteri della «scienza naturale moderna»(47). Il freudismo, in altri termini, costituisce per Heidegger un poderoso tentativo di assegnare al dominio epistemologico della scienza naturale e biologica il ricco ed inesauribile mondo dello psichismo umano, che è avvicinabile solo da un atteggiamento di Auslegung ermeneutica. «I tentativi di spiegazione dei fenomeni umani a partire dalle pulsioni hanno il carattere metodico di una scienza il cui ambito materiale non è affatto l’uomo, bensì la meccanica. Perciò, è fondamentalmente dubbio se un metodo, determinato in tal modo da un’oggettualità non-umana, possa essere, in generale, appropriato ad asserire qualcosa circa l’uomo in quanto (qua) uomo»(48). La prospettiva ermeneutica di Heidegger, allora, proprio in vista di una effettiva interpretazione dell’Esserci dell’uomo, capovolge l’interpretazione freudiana, giacché per Heidegger «ciò che spinge (das Drängende) nella pulsione non è l’inconscio o l’Es, ma l’esserci stesso, l’essere-nel-mondo stesso come capacità olistica dell’Io di assumersi progettando nel suo esser-gettato in un modo o in un altro, sia quello libero dell’adesione non discussa nell’intimo colloquio con sé, dove regna la normalità anonima del Si (inautentica), o dell’adesione scelta, passata al vaglio dell’angoscia essenziale (autentica), sia quello non libero di un’adesione al mondo vissuta come costretta e impoverita in una fissata possibilità mondana che elide ogni altra o in un arbitrio del significato fino al limite del rifiuto di mondo della sofferenza psicopatologica, nevrotica e psicotica»(49).
L’ermeneutica ontologica diviene in tal modo luogo di fondazione di una nuova antropologia che dovrebbe essere sottesa dalla medicina e dalla psichiatria. Nel senso che il Dasein, l’Esserci, la presenza umana, è considerato in modo ontologico come «incarnato essere-nel-mondo come con-essere con gli altri presso le cose, natura e storia, orizzonte e tradizione»(50).

L’antropologia di Heidegger è un’antropologia olistica, che rifiuta per principio di separare psiche e soma, anima e corpo, perché «l’esser corpo appartiene sempre insieme all’essere nel mondo. Esso condetermina sempre l’essere nel mondo, l’essere aperto, l’avere il mondo»(51). In un certo senso il corpo è per Heidegger niente altro che la manifestazione dello spirito nel suo esser nel mondo, e quindi nella spazialità. L’uomo non è mai solo un corpo inanimato, o un’anima incorporea, ma è viceversa sempre un corpo vivente che va compreso in modo radicale proprio dal suo modo di esserci come essere nel mondo. L’essere umano può essere compreso solo come “realtà umana” e non unicamente come realtà corporea, ed è per questo che l’ermeneutica come analitica del Dasein ovvero dell’Esserci inteso come presenza umana, risulta per Medard Boss fondamentale anche per la medicina e la psichiatria. Per Medard Boss l’opera di Heidegger contribuirà sicuramente «ad una umanizzazione del nostro mondo, una umanizzazione nel senso più positivo di questo termine»(52). E se la tematica fondamentale dei Seminari su cui Heidegger insiste è quella dell’uomo che è incessantemente aperto all’evento (Ereignis) dell’essere, ciò vuole dire per lo psichiatra «un’assoggettarsi all’amore destinato all’essenza dell’uomo per tutto ciò che, a partire dall’essere-aperto del suo mondo, si disvela e gli si rivolge in quanto ente»(53).

Binswanger e l’antropoanalisi
È sintomatica la critica che Heidegger in questi scritti rivolge alla antropoanalisi di Binswanger. Il quale aveva criticato Freud proprio alla luce dell’ermeneutica di Essere e tempo di Heidegger, sostenendo che nella psicoanalisi freudiana fosse presente una concezione dell’homo natura deterministicamente inteso, per un residuo positivistico in Freud, e che fosse totalmente assente quella dimensione esistenziale che aveva messo in luce Heidegger nell’analitica esistenziale, la quale sarebbe stata ben più efficace per interpretare l’esistenza e le sue deviazioni psicopatologiche. Perché, si chiedeva Binswanger, se il trauma della nascita come distacco dalla madre appartiene a tutti gli uomini, poi solo alcuni sviluppano sindromi nevrotiche o psicotiche di angoscia di fronte ad ogni distacco, fosse pure quello, riferito da Binswanger, di un tacco di scarpa? Ciò significava, sosteneva Binswanger, che al di là del rapporto tra meccanismi dell’inconscio e vita psichica cosciente esisteva quel vasto campo dell’esistenza evidenziato dall’analitica di Essere e tempo, nel quale si compivano quelle scelte esistenziali che erano alla base delle nevrosi e delle psicosi, e che fungeva pertanto da mediatore tra l’inconscio, deterministicamente inteso, e la vita cosciente. Se la dimensione esistenziale del Dasein, come aveva messo in luce Heidegger, è costituita dalle strutture esistenziali in cui il Dasein è collocato, e che sono notoriamente: l’essere nel mondo (in der Welt Sein), l’essere con gli altri (mit einander Sein), l’essere per la morte (sein zum Tode), la deiezione, il linguaggio, l’angoscia, l’apertura all’Essere, di conseguenza, sosteneva l’antropoanalisi di Binswanger, è a questo livello, che coinvolge una libera scelta esistenziale, che va ricercata l’origine vera delle nevrosi e delle psicosi. Non un meccanismo deterministico quindi tra conflitti dell’inconscio e vita cosciente può spiegare le nevrosi e le psicosi, ma un’ermeneutica dell’esistenza, capace di calarsi in quel complesso intreccio esistenziale in cui si compiono le scelte decisive per il soggetto. Se è deviato il rapporto con il mondo, con gli altri, con l’inevitabile fine dell’esistenza, se l’angoscia, non vissuta ed assunta nella sua dimensione metafisica di svelamento dell’autenticità della propria esistenza rispetto all’Essere e al Nulla, si tramuta in angoscia nevrotica o psicotica, e se il linguaggio da “casa dell’Essere” diviene chiacchera, e la deiezione da riscatto esistenziale diviene abbandono e solitudine, allora sorgono le nevrosi e le psicosi, che solo un’antropoanalisi, ben più della psicoanalisi, sarebbe per Binswanger capace di interpretare nella loro origine e nel loro significato.

Sembrerebbe che Binswanger applichi in pieno alla psicologia ed alla psicoanalisi il progetto dell’analitica esistenziale di Essere e tempo di Heidegger. Che senso si deve attribuire allora alla critica di Heidegger a Binswanger? Nient’altro, a mio avviso, e proprio alla luce dell’ermeneutica dell’effettività, per aver Heidegger ravvisato nell’antropoanalisi binswangeriana un ultimo residuo di trascendentalismo, ovvero di volontà di catturare in modo categoriale, seppure in una dimensione fenomenologico-ontologica, la realtà dell’esistente effettivo. Certamente anche l’ermeneutica dell’effettività non rifiuta ogni tipo di comprensione categoriale ed eidetica, indispensabile in ogni processo cognitivo; ma è consapevole che l’esistenza effettiva non si può racchiudere in comprensioni di tipo definitivo ed universale, fossero pure quelle dell’“analitica dell’esistenza”, senza un continuo ritorno all’effettività dell’esistenza. E in ciò consiste appunto la ricaduta “ontica” dell’ontologia heideggeriana.
In sintesi, l’errore dell’antropoanalisi di Binswanger, per Heidegger, è consistito nell’ «aver estrapolato dall’analitica ontologico-fondamentale dell’esserci quella costituzione fondamentale che in Sein und Zeit viene chiamata l’essere-nel-mondo, ponendola da sola a fondamento della sua scienza»(54). Al che lo stesso Binswanger contrapponeva, al fine di una metodologia interpretativa più sistematica dei fatti psichici, la necessità di una maggiore radicazione dell’ermeneutica ontologica nella fenomenologia trascendentale, maggiormente capace di condurre ad un’intuizione eidetica significativa: «Se da un lato posso apprezzare sempre di più l’ontologia di Heidegger nel suo significato puramente filosofico, dall’altro lato, tuttavia, la distinguo sempre di più dalla sua applicazione alla scienza, anche a quella della psichiatria. Sotto questo aspetto ha acquistato invece per me sempre maggior rilievo la dottrina della coscienza trascendentale di Husserl»(55). Viceversa, per Heidegger, capire anche l’aspetto corporeo dell’uomo può essere realizzato solo alla luce della sua “esistenza” come essere-nel-mondo, come progetto: «Noi non vediamo perché abbiamo occhi, ma abbiamo occhi perché siamo di essenza visiva»(56). Ciò comporta che la comprensione del malato non può avvenire in una dimensione puramente neutra, al di fuori del rapporto che il medico stabilisce con la persona sofferente. È questo l’umanesimo che l’ermeneutica ontologica di Heidegger intende innestare nella medicina e nelle psichiatra: «Il punto di partenza, cioè il fondamento, del giudizio diagnostico dello psichiatrico non è solo l’organismo del paziente, ma è soprattutto il mettersi in rapporto e il comunicare con lui in quanto egli è un uomo, cioè in quanto è copresente; in questo senso non si tratta essenzialmente solo del clinico verso il suo atteggiamento scientifico, ma del suo comportamento con-umano fondato in ugual misura sulla cura e sull’amore. In questo modo l’essenza della condizione dello psichiatra si spinge oltre ogni sapere materiale ed anche oltre le possibilità oggettive che vi sono connesse, cioè oltre le possibilità della scienza, della psicologia, e della psicoterapia. Questo superamento o trascendimento della materialità (contenere cose) e dell’oggettività (essere aderente a cose), cioè questo superamento del progetto di realtà e dell’oggettività della psichiatria come scienza, può essere compreso solo in base alla trascendenza stessa, come essere nel mondo ed essere oltre il mondo»(57). Certamente Heidegger non rinnega qui l’ermeneutica come analitica esistenziale di Essere e tempo; egli intende solo sostenere che questa deve essere interpretata alla luce dell’ermeneutica dell’effettività e non ridotta a strumento fenomenologico per catturare l’esistenza concreta entro schemi a priori di tipo trascendentale-categoriale. Potremmo dire, con Betti, che il limite del trascendentalismo in ermeneutica è la Sinngebung, l’attribuzione soggettiva di significato, che non trae il significato da ciò che realmente è, ma applica gli schemi trascendentali del significato ad una realtà esistente che invece è sempre nuova, è sempre un Ereignis, un evento, che sempre di nuovo deve essere compreso.

Ma quale è la norma ermeneutica che permette al medico di diagnosticare (comprendere) la sofferenza del paziente? È noto che per Binswanger i due poli dialettici della psicoterapia medica fossero da una parte il rapporto esistenziale di amicizia e di amore con il paziente, ma dall’altra anche la capacità di riconoscere obiettivamente le forze biologiche e psicologiche che sono in gioco: «In altre parole io, come psicoterapeuta, non posso mai essere legato al paziente solo da amicizia e amore, come avviene negli autentici rapporti esistenziali; né d’altronde io posso mai ridurmi al mero servizio di una cosa. Un buon psicoterapeuta sarà sempre quello che (per servirmi di un’eccellente espressione di Martin Buber) è in grado di vedere giustamente in ogni rapporto dialettico il contrappunto che lo governa e di moderarlo a regola d’arte»(58). Ora, per Heidegger, è proprio questo residuo in Binswanger del trascendentalismo husserliano della coscienza che risulta problematico: «Si danno cose come l’essere nell’essere presente o la libertà, che rifiutano ogni pretesa di misurabilità […] lo stare sotto la pretesa dell’essere nell’esser presente è la più grande pretesa dell’uomo è l’etica»(59). Con sorpresa constatiamo qui che l’ermeneutica ontologica di Heidegger assume come guida, nel campo dei rapporti umani, della medicina e della psichiatria, non una teoria ma l’incondizionatezza dell’etica(60). Giustamente osserva il Mazzarella che «Heidegger, che rifiuta la sua iscrizione alla genealogia trascendentale della soggettività kantiana, emerge in questi seminari di Zollikon come a Kant legato da un filo ben più spesso: in Heidegger è la pretesa della libertà intelligibile kantiana alla incondizionatezza, alla intangibilità da parte di ogni determinismo del meccanismo psico-fisico, che si fa valere in una estensione ontologica dell’Esserci come agente morale all’Esserci come essere-nel-mondo tout court, come presenza a sé dell’esserci […] la Norma kantiana che pretende per sé l’essere ‘vero’ dell’uomo, si è fatta l’Essere»(61).

Paradossalmente, potremmo allora dire che, a proposito di questa valutazione dell’esistenza effettiva, ha colto nel segno più di tanti seguaci di Heidegger il suo più severo censore e critico: Emanuele Lévinas. Nello studio che ha segnato il distacco di Lévinas sia dalla fenomenologia di Husserl che dall’analitica esistenziale di Essere e tempo, intitolato En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger(62), e che ha peraltro costituito il primo studio in Francia dedicato alla fenomenologia husserliana, Lévinas si distacca da Husserl e da Heidegger proprio in nome della realtà effettiva dell’esistente. L’esistente, in quanto ex-sistens, emergenza dall’essere e sull’essere, non può essere catturato da nessuna categoria ontologica, fosse pure quella della fenomenologia. L’ontologia, per Lévinas, altro non è che la proiezione della propria soggettività trascendentale all’altro, e quindi una riduzione dell’altro alle proprie categorie precomprensive, laddove l’altro deve essere prima di tutto intenzionato come altro, ovvero considerato come altro da me, diverso, separato ed estraneo a me(63). Vero è che Lévinas mette sotto accusa tutta l’ontologia occidentale, la quale sarebbe attraversata dalla stessa tentazione, che è quella di comprendere l’altro-esistente alla luce dell’essere comune, ovvero, come si esprimeranno i filosofi della “differenza”, comprendere l’Altro alla luce dello Stesso; e soprattutto, Lévinas ritiene che andare verso l’altro come altro possa verificarsi solo su un piano di intenzionalità etica più che non di intenzionalità fenomenologica o ermeneutica, perché l’“altro” è lo “straniero” che è “separato” da me, che è estraneo a me e quindi irriducibile a me. Tuttavia non si può sottacere che questa concezione levinasiana dell’esistente come un ex-sistere, come un emergere unico e irriducibile, non avrebbe potuto essere nemmeno formulata senza le categorie della fenomenologia di Husserl e dell’analitica dell’esistenza di Heidegger, come peraltro Lévinas stesso riconosce nell’opera citata. Si tratta allora, con Lévinas, di uno sviluppo di ciò che è nascosto nella fenomenologia e soprattutto nell’ermeneutica dell’esistenza di Heidegger. Si potrebbe qui ipotizzare che una più approfondita conoscenza, da parte di Lévinas, dell’ermeneutica dell’effettività di Heidegger, avrebbe forse attenuato i suoi giudizi severi sull’ontologia heideggeriana. Giacché l’esistente di Lévinas, che emerge come “volto”, è precisamente l’esistente che Heidegger ha di mira nell’ermeneutica dell’effettività, sebbene non pervenga mai a denominarlo levinasianamente come “volto”. In effetti, la critica che Lévinas muove ad Heidegger verte soprattutto su quella che egli considera una mancanza, nel pensiero ontologico-ermeneutico heideggeriano, di un’autentica istanza etica, volta a giustificare non l’essere neutro, ma a dar conto, responsabilmente, dell’altro dall’essere, del volto come termine non di un rapporto conoscitivo ma di intenzionalità etica. Sfugge tuttavia a Lévinas come la critica serrata che Heidegger rivolge al dominio planetario della tecnica sull’uomo contemporaneo, e i suoi appelli ad una pietas del pensare (la Frömmigkeit dell’Andenken-Denken) che, senza condanne, riscatti l’uomo dal pensiero calcolante per “ridare senso alla terra”, manifestano implicitamente il carattere fondamentalmente etico del suo cammino ermeneutico. La Seinsfrage dell’ermeneutica dell’effettività non si risolve infatti in una “fuga dal mondo”, ma in una oìkologia, ovvero nel ritrovamento della dimora autentica dell’uomo nella terra dei viventi. L’esistente effettivo come EsserCi e come Ereignis di Heidegger esprime non poche affinità teoretiche con la considerazione levinasiana dell’esistente come altro ed estraneo, che deve essere sempre di nuovo compreso, accettato ed amato nella sua alterità.

“Logica ermeneutica” ed “Etica ermeneutica”
Non a caso Schleiermacher definiva l’ermeneutica non una “tecnica” ma un’“arte dell’intelligenza”. Perché la garanzia della “verità” dell’interpretazione non è data dalla contrapposizione tra ermeneutica trascendentale, ermeneutica ontologica ed esistenziale ed ermeneutica metodica, ma dal saper coniugare queste tre componenti del processo interpretativo in maniera complementare. Anche questa è una componente della phronesis ermeneutica. Un’ermeneutica “phronetica” e “veritativa”, la quale non identifica la verità con la propria interpretazione soggettiva, e che può essere conseguita non radicalizzando o isolando una di queste tre dimensioni dell’ermeneutica (ontologica, trascendentale e metodica), ma sapendole coniugare, seppure in un processo di continuo “sviluppo ermeneutico”, e salvaguardando così sia l’ineliminabile dimensione eidetica dell’ermeneutica trascendentale, sia la componente ontologica, entro un chiaro quadro metodico. Solo in tal modo diviene possibile evitare la caduta in quell’ “ermeneutica debole” o “nichilista”, oggi diffusa, e già preconizzata da Nietzsche, il quale scriveva ne La gaia scienza: «Non abbiamo alcun organo per il conoscere, per la verità: noi sappiamo (o crediamo o ci immaginiamo) solo ciò che, nell’interesse del gregge umano, può essere utile per la specie: e, in ultima analisi, anche ciò che qui viene detto ‘utilità’ è soltanto una fede, un’immaginazione» (Aforisma 354); e questo perché, egli continua, «non esiste la verità ma solo interpretazioni».
La necessaria complementarità di queste tre dimensioni dell’ermeneutica, in ordine ad un’ “ermeneutica veritativa”, può essere colta in modo particolare dall’approfondimento di quello che viene considerato il principio fondamentale della “logica ermeneutica”: ovvero il “circolo ermeneutico”. Diversamente interpretato ed anche formulato fino a Gadamer, il “circolo ermeneutico” costituisce tuttavia un principio costante dell’ermeneutica filosofica, e quello che meglio la qualifica come vera e propria “logica ermeneutica”. Ricoeur, in Logique hermenéutique(64) parla esplicitamente di una “logica ermeneutica”, di cui il “circolo ermeneutico” costituisce un principio fondamentale. Una “logica ermeneutica” che non vuole contrapporsi per principio alla logica classica, ma vuole integrarla segnalandone i limiti nei confronti dell’interpretazione e della comprensione dei prodotti spirituali e storici dell’uomo, e formulando il principio che deve sorreggerne tutto il processo d’interpretazione e di comprensione.
A sua volta Heidegger fa del “circolo ermeneutico” la struttura ontologica fondamentale del rapporto di comprensione dell’Essere da parte del Dasein. Il “circolo ermeneutico” non rappresenta solamente la relazione tra la parte e il tutto di un’opera, ma riguarda essenzialmente il rapporto tra la finitezza del Dasein e l’Essere, rapporto che costituisce l’orizzonte di comprensione di ogni effettiva interpretazione. Per questo, per Heidegger, il “circolo ermeneutico” rappresenta la denominazione dello stesso Essere come orizzonte invalicabile di ogni comprensione e interpretazione, proprio dell’ “ermeneutica ontologica”.

Ma con Gadamer, e poi con Ricoeur, il “circolo ermeneutico” acquista una precisazione ulteriore, che oltre a metterne in luce i diversi momenti, risulta essenziale per comprendere in cosa consista la “logica ermeneutica” e come il “circolo” ne costituisca la componente fondamentale. L’importanza dell’impostazione che Gadamer e Ricoeur hanno offerto del “circolo” è dovuta al fatto che nella loro formulazione il “circolo del comprendere” mostra come esso costituisca veramente un principio indispensabile di “logica ermeneutica”, rintuzzando così tutte le critiche che da più parti gli sono state mosse, consistenti nel ritenerlo un principio vago, impreciso, soggetto ad arbitrio ed espressione massima della “paradossalità” della nuova logica ermeneutica. In Gadamer e in Ricoeur, infatti, l’Essere che Heidegger riteneva il presupposto ontologico della intenzionalità ermeneutica del Dasein, si declina nell’individuazione concreta delle modalità in cui si svolge il processo dell’interpretare e del comprendere. In tal modo essi precisano che l’orizzonte ontologico del Dasein heideggeriano è di fatto l’orizzonte di precomprensione che accompagna ogni processo interpretativo, ma allo stesso tempo stabiliscono anche, più chiaramente di Heidegger, l’oggettiva alterità di ogni realtà che deve essere interpretata. In altri termini, il circolo ermeneutico viene precisato come quel particolare rapporto che si stabilisce tra un interprete, consapevole di muoversi a partire da un proprio orizzonte precomprensivo (che significa anche dal “presupposto” dei propri “pregiudizi”), e tuttavia intenzionato a comprendere il suo “oggetto” nella sua alterità e nella sua “verità”. È questa la logica propria del circolo ermeneutico: consapevolezza dei condizionamenti del proprio orizzonte precomprensivo, e incessante tensione a interpretare e comprendere l’alterità nella sua verità, che significa prima di tutto riconoscimento di una alterità da raggiungere senza annullare. Gadamer è molto chiaro su questo punto: «Ora, egli scrive, il comprendere perviene alla sua possibilità autentica solo se le pre-supposizioni da cui parte non sono arbitrarie»(65). Il circolo ermeneutico allora, lungi dal rappresentare l’aporia costitutiva della logica ermeneutica, è invece il principio che la sorregge per renderla veritativa. Contrariamente a quanti ritengono che il “circolo ermeneutico”, anche nella versione gadameriana, impedisca la fuoriuscita dai propri pregiudizi per farsi realmente incontro all’altro, al diverso, Gadamer afferma che solo una mentalità razionalista ed illuminista, che fa affidamento ad una “ragione pura” da pregiudizi ed astorica, oppure uno storicismo che considera relativisticamente la ragione come invincibilmente impossibilitata a superare i “pregiudizi” e il proprio orizzonte di precomprensione, sono avversari del “circolo ermeneutico”, non comprendendo come esso rappresenti invece lo statuto autentico di una ragione consapevole della propria storicità, della propria soggettività, del proprio coinvolgimento partecipativo alla comprensione nell’orizzonte dell’essere, e insieme intenzionata alla verità. E questo perché, scrive Gadamer, «solo il riconoscimento del carattere costitutivo che ha il pregiudizio in ogni comprensione pone il problema ermeneutico nei suoi veri termini estremi. In questa prospettiva si vede che lo storicismo, nonostante la sua critica al razionalismo e al giusnaturalismo, si regge esso stesso sul terreno dell’Illuminismo moderno e condivide acriticamente i suoi pregiudizi. Anche l’Illuminismo, infatti, ha un suo pregiudizio fondamentale e costitutivo: questo pregiudizio che sta alla base dell’Illuminismo è il pregiudizio contro i pregiudizi in generale e quindi lo spodestamento della tradizione»(66).

E come per Gadamer, anche per Ricoeur occorre superare sia l’errore del razionalismo, che non riconosce alcuna pre-comprensione, sia quello dello storicismo, che annega la ragione in una pre-comprensione senza uscita. «L’ermeneutica, scrive Ricoeur, procede dalla pre-comprensione di ciò stesso che, interpretando, essa si propone di comprendere»(67); e per questo oggi l’ermeneutica ha il grande compito di recuperare tutte quelle dimensioni del pensiero — il simbolo, il mito, il sacro — che la cultura moderna ha cancellato dall’orizzonte della verità dell’uomo. Nella consapevolezza che, onde rimanere in ambito rigorosamente filosofico, l’ermeneutica stessa deve «pensare a partire dai simboli e non più nei simboli»(68). Nel senso che deve restare capace di «giustificare un concetto mostrando che esso rende possibile la costituzione di un ambito di oggettività»(69). E ciò può farlo solo accettando la scommessa di andare oltre il simbolo stesso, oltre la possibilità che il simbolo sia solo espressione della coscienza di sé, perché «trattando il simbolo come un semplice rivelatore della coscienza di sé, lo amputiamo della sua funzione ontologica»(70). Ancora una volta Ricoeur si mostra in grado di coniugare, nella logica del circolo ermeneutico, le due dimensioni — trascendentale ed ontologica — dell’ermeneutica.

Emilio Betti, che si mostra invece particolarmente interessato all’aspetto metodico dell’ermeneutica, e attento all’oggettività del processo interpretativo, offre poi indicazioni preziose per quella che si potrebbe definire un’ “etica ermeneutica”. Betti riconosce nel “circolo” il principio fondamentale della logica ermeneutica, ma vuole che esso venga utilizzato nel contesto dei quattro canoni che egli assegnava all’ermeneutica (autonomia dell’oggetto dell’interpretazione, totalità, attualità, adeguazione dell’intendere), ed alla luce del superiore principio secondo cui «sensus non est inferendus sed efferendus». È in questo contesto “metodico” che Betti valuta la particolare caratteristica dell’interpretazione psicologica. Essa, scrive Betti, possiede un qualcosa di “divinatorio”: «Ovunque la forma tramandata o percepita non sia consapevolmente destinata ad una funzione rappresentativa o, anche se destinatavi, abbia carattere frammentario, labile e fuggevole, si rende necessaria un’interpretazione ermeneutica che fa affidamento sull’intuito divinatorio dell’interprete»(71). Ciò è dovuto al fatto che la valutazione di una situazione psicologica, a motivo del «labile modo di essere del suo oggetto», ha sempre qualcosa di divinatorio, perché coinvolge il rapporto tra soggettività psicologiche. L’interpretazione psicologica deve avvalersi infatti non soltanto della parola ma anche della voce, dello sguardo, del gesto, della fisionomia, degli atteggiamenti (interpretazione ricognitiva). Essa inoltre deve poter riprodurre in qualche modo il senso di ciò che è stato comunicato (interpretazione riproduttiva); e deve poi avere uno scopo pratico di recupero di un’adeguazione al contesto vitale e sociale (interpretazione normativa). Da ciò consegue per Betti l’intensità dell’interpretazione psicologica: «Qui è da soggiungere che il processo per cui si penetra nell’altrui mondo interiore, è essenzialmente, come ogni processo interpretativo, un riconoscere negli atteggiamenti della persona altrui esperienze che altrimenti ciascuno fa nel proprio intimo, un risentire l’altrui emozione e un condividerla in virtù di un’anamnesis che è retta da un apriori intuitivo, perché, come quella platonica, non risale ad una effettiva esperienza propria»(72). Ne consegue, per Betti, che l’anima che dovrebbe guidare l’interpretazione psicologica, è analoga a quella dell’educatore, che in modo disinteressato mira a promuovere lo sviluppo della persona dell’altro, in un rapporto che oltre che cognitivo, è prevalentemente etico. Certamente Betti si rende conto, con Freud, che uno dei compiti dell’interprete psicologo è anche quello di smascherare i «motivi ostentati, simulati o convenzionali, e rintracciare, al di là di essi, i motivi reali per cui gli altri reagiscono»(73); ma al di là di questa doverosa opera di smascheramento, l’interpretazione psicologica deve essere guidata da una profonda istanza etica, da un’interesse congeniale che «attinge
la forma più intensa nel rapporto dell’amico con l’amico e nella tendenza a proteggere e promuovere l’altrui personalità»(74). Se Freud parlava di transfert, Betti preferisce parlare di Ethos, che non è solo un processo cognitivo, perché comunicando con l’altro giunge a penetrare fino a un punto in cui l’astratta conoscenza non arriva. Betti sembra riprendere qui il tema della Einfühlung caro a Schleiermacher, quasi a sottolineare la particolarità e la dignità dell’interpretazione psicologica, la quale si sostanzia, dal punto di vista cognitivo, di una anamnesis analoga a quella platonica, che significa la capacità di partecipare al mondo interiore dell’altro perché si è in grado di accedere ad una struttura spirituale che trascende le individualità. «Qui si ha, più che un simpatizzare, un risentire e rivivere in sé l’altrui esperienza affettiva, un compenetrarsene, riproducendola congenialmente in sé stessi»(75). Ed è in questo contesto che Betti pronuncia un severo giudizio nei confronti della psicoanalisi «la quale relega nell’inconscio o nel subcosciente la vera essenza della personalità, e attribuisce alla coscienza un valore puramente simbolico e sintomatico»(76). È vero, riconosce Betti, che la coscienza non rispecchia sempre in modo schietto e fedele la personalità dell’io, così che bisogna sempre ricorrere ad un processo di interpretazione per capire ciò che veramente intende la coscienza «col suo enigmatico complesso di segni». Ma la personalità trascende sempre la propria coscienza, per cui non si può mai dire di giungere ad una piena e definitiva padronanza della personalità e della vera essenza dell’io attraverso una decifrazione integrale dei segni della coscienza. «In realtà le sorgenti dell’umano agire non sono rinvenibili in rappresentazioni coscienti, ma in scopi e orientamenti inconsapevoli, che governano la condotta nell’interiorità della persona e al di fuori di essa»(77). In altri termini per Betti, come per Heidegger, l’interpretazione della psicologia dell’altro non è mai definitivamente compiuta, ma ha sempre bisogno di essere ripresa per pervenire alla sua effettiva realtà: «Codesto tipo di indagine ermeneutica si potrebbe qualificare interpretazione profetica, intendendo per profeta non già chi assume di predire il vero, ma chi, vivendo in tempi in cui maturano decisioni, è chiamato ad additare la decisione giusta e conforme alla situazione avvenire»(78).
L’interpretazione psicologica, costituisce, così per Betti parte integrante dell’educazione ed in essa è possibile rintracciare le linee guida di un’ “etica ermeneutica”, che possiamo qualificare come phronesis. L’interpretazione psicologica mette infatti in luce in maniera decisiva come tutto il procedimento ermeneutico che deve svolgersi sul piano teoretico-conoscitivo, sotto la guida dei noti quattro canoni dell’interpretazione, deve tuttavia essere animato e inquadrato in una contestualità etica, «la quale non va intesa […] come un tratto puramente esterno e fungibile, che non tocca, né influisce sul quadro, ma come intelaiatura di una materia, più esattamente
di una serie di atti di un processo ermeneutico, il quale ne rimane sostanzialmente influenzato e completato»(79). Giustamente il Benedetti rileva come il momento etico sia da considerarsi in Betti, attento all’aspetto metodico dell’ermeneutica, «immanente e intrinseco al fatto ermeneutico considerato nella sua totalità, si svela così come forma, in senso aristotelico, dello stesso»(80). L’atto ermeneutico non si risolve quindi in un puro aspetto metodico, perché piuttosto «è costruzione di un sapere fondato sullo spirito dell’uomo, il quale conquista il suo posto nella comunità spirituale dei vivi e dei morti proprio attraverso l’attività della comprensione e del comunicare. Di qui il valore altamente educativo dell’ermeneutica»(81). L’eticità dell’atto ermeneutico permette allora non solo di superare l’antinomia tra l’ermeneutica ontologica di Heidegger e di Gadamer e l’ermeneutica metodologica di Betti(82), ma anche di impostare ogni processo cognitivo legato all’interpretazione in una cornice di eticità che ne guida il cammino e ne informa i contenuti. La frase di Heidegger, che ricorda una massima di Goethe, secondo cui «la cosa suprema sarebbe: capire che ogni che di fattuale è già teoria»(83), potrebbe essere allora letta in questo contesto come espressiva dell’incontro-interpretazione psicologica. Per Heidegger infatti Goethe intende significare due principi che egli ritiene consoni alla propria concezione dell’ermeneutica: innanzi tutto, che il processo ermeneutico non abbisogna di una “teoria” precostituita che lo guidi, perché esso elabora la teoria proprio all’interno della dinamica dell’effettualità; e in secondo luogo che il rapporto ermeneutico correttamente inteso — sia di riferimento ai principi che stanno alla base della stessa ermeneutica, sia in relazione all’istanza di correttezza etica che deve animarlo — diviene perciò stesso fondativo di quella teoria che lo abilita ad interpretare correttamente l’effettualità, perché la rende capace di svelarsi nella sua verità.

Note

1 Cf. P. RICOEUR, Della interpretazione. Saggio su Freud, tr. it. di E. Renzi, Il Saggiatore, Milano 1967.
2 P. RICOEUR, Filosofia della volontà. 2. Finitudine e colpa, II, La simbolica del male, tr. it. di M. Girardet Sbaffi, Introduzione di Virgilio Melchiorre, Il Mulino, Bologna 1970, p. 633.
3 Ibidem.
4 Cf. M. BONATO, Prefazione a P. RICOEUR, Filosofia della volontà. Il volontario e l’involontario, tr. it. di M. Bonato, Marietti, Genova 1990, pp. XIV-XV.
5 A. RIGOBELLO, Prefazione a P. RICOEUR, Il conflitto delle interpretazioni, tr. it. di R. Balzarotti, F. Botturi, G. Colombo, Introduzione di D. Jervolino, Jaca Book, Milano 1965, p. 6.
6 P. RICOEUR, Della interpretazione. Saggio su Freud, cit., p. 47.
7 F. BREZZI, Ricoeur. Interpretare la fede, Messaggero di Sant’Antonio, Padova 1999, p. 110.
8 L. DORNISCH, I sistemi simbolici e l’interpretazione della scrittura: Introduzione all’opera di Paul Ricoeur, in P. RICOEUR, Ermeneutica biblica. Linguaggio e simbolo nelle parabole di Gesù, Morcelliana, Brescia 1978, p. 23.
9 P. RICOEUR, Il conflitto delle interpretazioni, cit., p. 498.
10 Ivi, p. 34.
11 Ivi, pp. 33-34.
12 P. RICOEUR, Della interpretazione. Saggio su Freud, cit., p. 54.
13 L. DORNISCH, I sistemi simbolici e l’interpretazione della scrittura, cit., p. 23.
14 Ibidem.
15 P. RICOEUR, Il conflitto delle interpretazioni, tr. it. di R. Balzarotti, F. Botturi, G. Colombo, Introduzione di D. Jervolino, Jaca Book, Milano 1965, p. 258.
16 P. RICOEUR, Della interpretazione. Saggio su Freud, cit., p. 63.
17 P. RICOEUR, Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, tr. it. di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 1998, p. 47.
18 P. RICOEUR, Filosofia della volontà. 2, cit., p. 633.
19 P. RICOEUR, Filosofia della volontà. Il volontario e l’involontario, tr. it. e Introduzione di M. Bonato, Marietti, Genova 1990, p. 12.
20 Ivi, p. 20.
21 Cf. V. MELCHIORRE, Il metodo fenomenologico di Paul Ricoeur, Introduzione a P. RICOEUR, Finitudine e colpa. I: L’uomo fallibile, II: La simbolica del male, tr. it. di M. Girardet Sbaffi, il Mulino, Bologna 1970, pp. 9-13.
22 D. JERVOLINO, Il Cogito e l’ermeneutica. La questione del soggetto in Paul Ricoeur, Procaccini, Napoli 1984, p. 29.
23 Cf. E. DUSSEL, Ermeneutica e liberazione. Dalla “Fenomenologia ermeneutica” ad una “filosofia della liberazione”. Dialogo con Paul Ricoeur, in Filosofia e liberazione. La sfida del pensiero del terzo-mondo, a cura di G. Cantillo e D. Jervolino, Capone, Cavallino di Lecce 1992, p. 79.
24 Sulla ineliminabile componente fenomenologica dell’ermeneutica hanno scritto pagine importanti J. GREISCH, L’herméneutique dans la “phénoménologie comme telle”, Trois questions à propos de Rèduction et Donation, in «Revue de Métaphysique et de morale», n. 1, Paris 1991; ID., Le cogito herméneutique: l’herméneutique philosophique et l’heritage cartesien, Vrin, Paris 2000; e J.-L. MARION, Réduction et donation: recherches sur Husserl, Heidegger et la phénoménologie, Presses Universitaires de France, Paris 1989; ID., Etant donne: essai d’une phénoménologie de la donation, Presses Universitaires de France, Paris 1997 (ed. it. Dato che: saggio per una fenomenologia della donazione, tr. it. di R. Caldarone, SEI, Torino 2001).
25 P. RICOEUR, Il conflitto delle interpretazioni, cit., p. 20.
26 Cf. H.-G. GADAMER, Verità e metodo, tr. it. di G. Vattimo, Fabbri, Milano 1972. Per il rapporto tra Gadamer e Ricoeur, cf. P. RICOEUR, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, tr. it. di G. Grampa, Jaca Book, Milano 1989, pp. 91-95, 323-363; e D. JERVOLINO, Il cogito e l’ermeneutica, cit., pp. 5-8, e 77.
27 P. Ricoeur distingue i “fondatori” dell’ermeneutica come teoria dell’interpretazione (Schleiermacher e Dilthey), dall’ “l’ermeneutica ontologica” (Heidegger e Gadamer), e dall’ “l’ermeneutica metodica” (Betti, Hirsch e lo stesso Ricoeur, con Adorno, Habermas e Apel per quanto riguarda la critica delle ideologie). In Langage (Philosophie) in Encyclopaedia Universalis, IX, Enciclopedia Universalis France, Paris 1971, pp. 771-781, Ricoeur sostiene la tesi della complementarità tra le tre forme di ermeneutica (trascendentale, ontologica e metodica), complementarità che sola permetterebbe il dialogo con la scienza linguistica, con l’analisi concettuale, lo strutturalismo, la psicanalisi e lo stesso marxismo come critica dell’ideologia.
28 D. JERVOLINO, Ricoeur. L’amore difficile, Studium, Roma 1995, p. 236.
29 P. RICOEUR, Il conflitto delle interpretazioni, cit., p. 37.
30 Cf. M. HEIDEGGER, Seminari di Zollikon: protocolli, seminari, colloqui, lettere, ed. it. a cura di E. Mazzarella e A. Giugliano, Guida, Napoli 20003.
31 Cf. H. OTT, Martin Heidegger: sentieri biografici, ed. it. a cura di F. Cassinari, Prefazione di C. Sini, Sugarco, Milano 1988.1990, p. 273.
32 M. BOSS, Prefazione a M. Heidegger, Seminari di Zollikon, cit., p. 8.
33 Ivi, p. 9.
34 Ibidem.
35 Ibidem.
36 Ivi, p. 10.
37 Ibidem.
38 Ivi, p. 11. Medard Boss precisa che dal 1970, a motivo dell’indebolirsi delle forze fisiche di Heidegger, i Seminari proseguirono in modo esclusivamente personale nella casa di questi a Friburgo. Boss precisa di essere stato lui stesso a registrare le conversazioni di Heidegger, a farle trascrivere in dattiloscritto, e ad inviarle ad Heidegger per le opportune correzioni ed integrazioni.
39 M. HEIDEGGER, Seminari di Zollikon, cit., p. 172.
40 Cf. M. HEIDEGGER, Lettera sull’umanismo, ed. it. a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano 1995.
41 M. HEIDEGGER, Seminari di Zollikon, cit., p. 233.
42 Ivi, p. 177.
43 Cf. infra, cap. 2.
44 M. HEIDEGGER, Seminari di Zollikon, cit., p. 69.
45 Ibidem.
46 E. MAZZARELLA, Ermeneutica dell’effettività. Prospettive ontiche dell’ontologia heideggeriana, Guida, Napoli 1993, p. 155.
47 M. HEIDEGGER, Seminari di Zollikon, cit., p. 299.
48 Ivi, p. 250.
49 E. MAZZARELLA, Ermeneutica dell’effettività, cit., p. 160.
50 Ivi, p. 155.
51 M. HEIDEGGER, Seminari di Zollikon, cit., p. 165.
52 M. BOSS, Prefazione a M. HEIDEGGER, Seminari di Zollikon, cit., p. 15.
53 Ibidem.
54 M. HEIDEGGER, Seminari di Zollikon, cit., p. 269.
55 L. BINSWANGER, Delirio: antropoanalisi e fenomenologia, tr. it. a cura di G. Giacometti, Introduzione di E. Borgna, Marsilio, Venezia 1990, pp. 113-114.
56 M. HEIDEGGER, Seminari di Zollikon, cit., p. 234.
57 Ivi, p. 223.
58 L. BINSWANGER, Per un’antropologia fenomenologica: saggi e conferenze psichiatriche, ed. it. a cura di F. Giacanelli, Prefazione di U. Galimberti, Feltrinelli, Milano 19892, pp. 140-141.
59 M. HEIDEGGER, Seminari di Zollikon, cit., p. 318.
60 Per la componente “etica” dell’ermeneutica heideggeriana, cf. P. DE VITIIS, Il sacrificio essenziale, in AA.VV., Heidegger e gli orizzonti della filosofia pratica: etica, estetica, politica, religione, a cura di A. Ardovino, Guerini Editore, Milano 2003, pp. 73-86.
61 E. MAZZARELLA, Ermeneutica dell’effettività, cit., p. 169.
62 Cf. E. LÉVINAS, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, J. Vrin, Paris 1949, 19872. Il testo contiene due studi su Husserl e Heidegger, apparsi rispettivamente nel 1940 e nel 1932.
63 Vedi anche, di Lévinas, De l’existence a l’existant, J.Vrin, Paris 1947, 19812.
64 Cf. P. RICOEUR, Logique hermenéutique, in Contemporary Philosophy. A New Survey, edited by G. Floistad, M. Nijhoff, The Hague-Boston-London 1981. Sulla “logica ermeneutica” cf. anche D. FARIAS, Interpretazione logica e dogmatica nelle varie fasi della storia dell’ermeneutica moderna, Estr. da: “Annali della facoltà di Economia e Commercio” dell’Università di Messina, n. 1, 1984; e M. MEZZANZANICA, Georg Misch: dalla filosofia della vita alla logica ermeneutica, F. Angeli, Milano 2001.
65 H.-G. GADAMER, Verità e metodo, cit., p. 314.
66 Ivi, p. 317.
67 P. RICOEUR, Philosophie de la volonté. Finitude et culpabilité. II La symbolique du mal, Aubier, Paris 1960, p. 327.
68 Ivi, p. 330.
69 Ibidem.
70 Ivi, p. 331.
71 E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, A. Giuffré, Milano 1955, p. 886.
72 Ivi, p. 889.
73 Ibidem.
74 Ivi, p. 891.
75 Ibidem.
76 Ivi, p. 906.
77 Ivi, p. 907.
78 Ivi, p. 917.
79 G. BENEDETTI, Eticità dell’atto ermeneutico. Una testimonianza sulla teoria di Emilio Betti, in Emilio Betti e l’interpretazione, a cura di V. Rizzo, Edizioni Scientifiche Italiane, Roma-Napoli-Benevento 1991, p. 149.
80 Ibidem.
81 Ivi, p. 151.
82 Sulla complementarità tra l’ermeneutica di Gadamer e quella di Betti mi permetto di rimandare al mio Saggio introduttivo: la “teoria ermeneutica di Emilio Betti”, in E. BETTI, L’ermeneutica come metodica generale delle scienze dello spirito, tr. it. di O. Nobile-Ventura, G. Crifò e G. Mura, Città Nuova, Roma 1987.
83 M. HEIDEGGER, Seminari di Zollikon, cit., p. 359.