Chi trasale a quell’esile trafittura conosce
la contemplazione dell’udito.

Cristina Campo, Il flauto e il tappeto

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Nostalgia di concretezza
Non è un destino facile quello del musicista. All’orecchio del bambino che si accosti per la prima volta al pianoforte, bisognerebbe sussurrare: benvenuto all’inferno!

L’esperienza della musica, al di là dei miti di purezza da cui appare costellata – linguaggio catartico, influsso salvatore, medicina dell’anima –, si rivela intrinsecamente impura e potenzialmente tossica.
In una parola: sacra, nell’accezione più aconfessionale del termine, divina e diabolica insieme. E del sacro, fascinans e tremendum (1), la musica eredita insanabili antinomie; grazia e spavento concertano la tensione, umanissima e immanente, tra le rose e la cenere, il grano e il papavero. Una tensione che non conosce tregua, né – in definitiva – sintesi, ma che, in qualche sporadico, discontinuo
guizzo di bellezza, può farsi bagliore armonico, respiro, persino melodia.
La musica, come il sacro, sfugge a ogni tentativo di definizione (2), e induce a una distanza. È d’obbligo il distanziamento (quello che oggi appare reificato nei comportamenti preventivi): si può stare nei pressi, ma mai toppo vicino.

(Permettetemi una parentesi intima: un amico compositore mi ha confidato di dedicarsi alla creazione vera e propria, lo spazio-tempo dell’idea musicale, non più di dieci minuti al giorno; è un tempo massimo d’attenzione al quale segue tutto un lavoro di mestiere, puro artigianato della scrittura musicale, raffinatura, segno, in cui la mente è intorno al suono, ma si guarda bene dall’entrarci dentro.
Allo stesso modo, un pianista sta all’interno della musica il tempo esatto dell’esecuzione, ma deve stare attento a non suonare troppo il pezzo per non viziarlo; e allora lo smembra in passaggi in cui pensa al gesto, alla diteggiatura, al tempo, all’uguaglianza tra le dita, alle dinamiche, insomma cerca in tutti i modi di tirarsi fuori dalla musica).

La sacralità impone distacco. Pertanto, occorre perseguire un metodo apofatico: se non si riesce a dire cos’è la cosa, si può cercare di intuire cosa non è. La musica, come il sacro, implica una rinuncia alla tangibilità da cui deriva quella Stimmung che il compositore Luciano Berio chiamava «nostalgia di concretezza» (3): anche il parlare di musica richiede metafore, voci riflesse, allusioni, visioni indirette come quella di Perseo che uccide Medusa servendosi di uno specchio (o come tutti i discorsi della psiche sulla psiche).
La nostalgia di concretezza – che accomuna il sacro, la musica e la psiche – esige una disposizione all’abbandono, dove abbandonarsi vuol dire non opporre resistenza all’ineffabile (4). Riuscire a sopportarlo. Qualche volta a soffrirlo. Lasciarsi attraversare da voci astratte eppure così reali, se reale è ciò che agisce (5).

La struttura antinomica della psiche, come la complessità del reale, raramente orchestra armoniose congiunzioni d’opposti. Il più delle volte il dolore dell’antinomia resta letteralmente insanabile.
Eppure, quel dolore, forse, nonostante tutto, potrebbe ancora trascendere in voce; se stiamo attenti, potrebbe trasformarsi in qualcosa di continuamente mutevole, plastico e aereo, come le nuvole.
Qualcosa che, nel proprio balbettio intermittente, qualche volta, diviene ritmo che batte nei pressi della sacralità del vivente.
Lì, nella parte viva della vita, abita il simbolo, che non dice e non nasconde, ma accenna (6). Come il ventre gravido di una donna, il simbolo allude a una vita non ancora del tutto svelata. La musica, forse, coincide con quella pancia di vita coperta: non urlata e non taciuta. La sua caratteristica ultima consiste proprio nell’indefinitezza che la rende viva. Il totale svelamento del significato, ossia l’esaurimento delle possibilità di significazione, trasformerebbe il simbolo in un simbolo morto (e la musica in dattilografia).

Jung definisce semeiotica l’indicazione di una cosa nota – precisa e puntuale come un cartello stradale che ci segnala di svoltare obbligatoriamente a destra; viceversa diventa simbolica «la migliore indicazione o formulazione possibile di un dato di fatto relativamente sconosciuto, ma la cui esistenza è riconosciuta o considerata necessaria» (7). E allora, se, come sosteneva Agostino d’Ippona (8), la
musica è un fenomeno semiologico, in quanto costituita da segni che rinviano a qualcosa d’altro, ne consegue che quel “qualcosa d’altro” resti relativamente sconosciuto. Proprio per questo i segni musicali non possono essere ridotti a una concezione semeiotica, bensì totalmente simbolica. Ma cosa esprimono quei segni? Di sicuro, niente di concreto; potremmo, però, cautamente affermare che si
riferiscano a qualcosa di estremamente reale. Reale perché efficace (tanto da farci venire la pelle d’oca – come l’attacco dei Carmina burana di Carl Orff, ascoltato per bene, in una sala da concerto, dopo un religioso silenzio).

Nella differenza junghiana tra segno e simbolo, potremmo situare anche la distinzione tra prima e seconda articolazione del linguaggio proposta da Jean-Jacques Nattiez (9): la musica si articolerebbe solo al secondo livello, ossia quello caratterizzato dai significanti della lingua (fonemi o suoni) che non possiedono un significato specifico. In questa distinzione, potremmo rintracciare un ulteriore nesso che, da Jung a Nattiez, ci riporta a Wittgenstein.
Per il filosofo austriaco il linguaggio è simile a una cassetta degli attrezzi: gli utensili della cassetta, come i segni di una lingua, possono essere usati in modi tanto diversi quanti sono i contesti e gli scopi della vita viva.


Ciò che chiamiamo comprendere un enunciato è, in molti casi, molto più simile al comprendere un tema musicale di quanto penseremmo. Ma non voglio dire che il comprendere un tema musicale corrisponda all’immagine che noi tendiamo a farci della comprensione di un enunciato; ciò che voglio dire è, piuttosto, che quest’immagine della comprensione di un enunciato è errata e che il comprendere un enunciato è molto più simile di quanto sembri a prima vista a ciò che nella realtà accade quando noi comprendiamo una melodia. Infatti, comprendere
un enunciato, noi diciamo, indica una realtà fuori dall’enunciato. Mentre invece si potrebbe dire: “Comprendere un enunciato significa afferrare il suo contenuto; e il contenuto dell’enunciato è nell’enunciato” (10).

La musica appare un gioco di vita in cui il significato non si pone di fronte al suono, ma dentro la voce. La distinzione tra significante e significato, tra forma e contenuto, è abolita. Non esiste un linguaggio dirimpetto al mondo, né alcuna referenza estrinseca: il segno è scalzato dal simbolo che diventa esso stesso il mondo e il mondo trasforma. Ed è proprio questa caratteristica di svelamento e occultamento insieme, questa naturale plasticità simbolica della materia sonora, che ingenerava in Giorgio Manganelli, poeta, una profonda invidia per la musica (11).
Musica, arte delle Muse, occasione privilegiata del trascendere nell’immanenza?
Ricucendo un nesso sommerso tra Wittgenstein e Jung, la musica, come la parola viva generata dalla cassetta degli attrezzi (di un analista o di un poeta), apparirebbe strumento d’elezione per l’esercizio di una funzione trascendente (12).
Attenzione però: non è mai stata l’ascesi il segreto della trascendenza, ma il transito. Così come la vicenda infaticabile delle nuvole non si esaurisce nelle spire della sublimazione, ma nel movimento semplice e orizzontale delle forme vive.
In questo senso si potrebbe osare che il fine stesso dell’individuazione junghiana – come quello di ogni impresa umana – coincida con la musica, che delle nuvole possiede la consistenza. Individuarsi potrebbe voler dire fare di un destino una figura musicale, annuvolarsi nella propria specifica nuvolosità, un po’ celicola, leggera e trapassante, come quella di tanti Metastasio (13) della vita ordinaria.


Perché la musica?
Apollo e Dioniso (14) si spartiscono il mistero ed è così che la geometria apollinea delle corde convive con l’ineffabilità del soffio, la proporzionalità matematica degli armonici con l’eros incatturabile di Siringa (15). Insomma l’armonia delle sfere, dai Pitagorici a Platone, da Keplero a Hindemith (16), non evoca soltanto ascetica virtù, ma può rovesciarsi nel virtuosismo violinistico (17) di chi si è venduto l’anima al diavolo!

Invertendo l’ordine delle parole, lo spirito della musica non può che nascere da una tragedia, una ferita antichissima, uno scandalo: il flauto di Pan oggi si direbbe essere frutto di un femminicidio. Siringa, per sfuggire al suo violentatore, invoca e ottiene la trasformazione in un ciuffo di canne palustri. Il flauto trascende il violento e resuscita il morto: presenza e assenza, plaisir et deplaisir (18), lamento e cura, allo stesso tempo, nello stesso suono. Oppure potremmo riformulare: il flauto trascende il sintomo e resuscita le parti morte, ne fa canto, voce, sopravvivenza.

Il Salmo 57, che Cristina Campo pone in epigrafe a Il flauto e il tappeto, con una metafora musicale paragona i peccatori – che laicamente potremmo ribattezzare come uomini soffocati dall’Ombra – ad aspidi sorde. Essi appaiono insensibili al richiamo del flauto incantatore, strumento di un appello profondo che abbraccia la vita e la morte. «Certo, la voce del flauto è remota. È quasi sempre quasi impercepibile. Terribilmente tramata alle mille voci del tempo, alle musiche discordemente streganti del concerto mondano. Come un suono percepito in sogno, come la voce dell’usignoletto minuscolo, il cui dardo di diamante farà tacere tutti i suoni del bosco, è il suo delicato lamento» (19).
Potremmo immaginare che esista un tema per ciascun essere umano che lo cerca sin da prima della nascita. L’individuazione inizia con il discernimento di quella musica specifica che si confonde con le infinite, ammalianti, Sirene del mondo. Bisogna trasalire a quell’esile trafittura, chiamiamola peccato originale, daimon, o con tutti i nomi possibili. Oppure chiamiamolo semplicemente: essere nati.
E qui veniamo al nocciolo della questione.
Perché la musica?
«Avete scoperto che non è per il Re?» (20), domanda quel trappista della viola di Monsieur de Sainte- Colombe a Marin Marais. «Ho scoperto che è fatta per Dio» gli risponde l’allievo. «E vi siete sbagliato!» lo incalza il gambista senior.

E allora l’allievo ci riprova: «Per una cialda offerta all’invisibile?». «Nooo! Cos’è una cialda, essa si vede, ha un gusto si mangia: non è niente» ribatte Sainte Colombe. Ma qui l’allievo intuisce qualcosa, sembra affacciarsi sull’abisso restando ben piantato sulla terra, con una postura aderente e sfalsata.
Insomma, finalmente, almeno per un istante, Marais imbocca la strada giusta, quella sensibile, artigiana, umile e attenta di chi vede per la prima volta ciò che c’era da sempre, di chi può andare e tornare dall’inferno, di chi sta in quel movimento vitale che coincide con l’arte suprema, e alla domanda perché la musica? risponde: «Si dovrebbe lasciare un bicchiere ai morti, un piccolo abbeveratoio per coloro che il linguaggio ha disertato. Per l’ombra dei fanciulli, per addolcire le martellate dei calzolai. Per gli stati che precedono l’infanzia, quando si era senza respiro e senza luce».

Musica e morte
Senza respiro e senza luce.
Non esiste riflessione sulla musica che non tocchi il tema della morte e della vita, nel senso più originario del termine, quello che i tedeschi definiscono Vorstufe. È qualcosa che, riprendendo Erwin Straus (21), si pone tra il grido e la parola, tra il paesaggio e la geografia. Ma allora, una domanda ridiventa martellante: in principio era il suono? (22).
Da un punto di vista psicopatologico, si potrebbe tentare di risalire al senso della musica nelle condizioni di collasso del linguaggio, quegli stati in cui la parola non può essere detta né taciuta, e l’esperienza appare, contemporaneamente, così concreta da invadere il vissuto psichico, e così astratta da diventare intraducibile. Nella fenomenologia schizofrenica delle voci, alla parossistica condensazione delle immagini corrisponde una violenta rarefazione della lingua: gli uditori di voci riferiscono una qualità della lingua intraducibile, imparlabile. È un’esperienza pervasiva di
disorientamento, di perdita di quelle coordinate che ci permettono di stare ancorati sulla terra, partecipando a un mondo condiviso. Ma qui risiede una differenza sostanziale e illuminante: come ci ricorda tra gli altri Claude Lévi-Strauss (23), la musica si compone di quel connubio, difficile da enunciare ma dotato di immediatezza sensibile, che associa intelligibilità a intraducibilità. È proprio l’intelligibilità il sigillo che le voci allucinate hanno perduto e che la parola riacquista, paradossalmente, solo quando si fa indiretta, opaca e quindi poetica.

La poesia, dei linguaggi il più prossimo alla musica, assomiglia a una nuvola cangiante di forme: è il miracolo della vita moltiplicata, quella che trasfonde una specie di altrove a ciò che sembrava morto. Morto come la parola stessa.
E allora le nuvole, le parole poetiche, la musica si compongono di «Figure in cui l’occhio ha colto o trasfuso quella seconda vita che è l’analogia salvatrice: giglio, corolla, danza, morte, stella; dove pace ed orrore si compongono in eguali, innocenti geometrie» (24).
Gli attimi di vita moltiplicata sono sopravvivenze che assomigliano a piroette sulla morte, ribaltamenti del rigor mortis in leggerezza: così una forma statica e muta improvvisamente riacquista movimento e musicalità, proprio come quando in una nuvola scorgiamo il drappo madreperlato di una farfalla, o un aspide che si risveglia al suono del flauto incantatore, o come quando la parola dell’analista si assorda momentaneamente per soffiare un’immagine che la renda viva.

Può accadere che di fronte alla disperazione di un paziente o alla noia generata dalla ripetitività del suo lamento, o ancora quando il paziente domanda insistente “che devo fare?”, “come fare?”, l’analista si arrenda a un “non so”. Se questo avviene davvero, se davvero si riesce a stare almeno per qualche istante, insieme, abbandonati in quell’oceano senza nome, può accadere che dal silenzio si stagli un’immagine sonora che contiene, allevia e talvolta trasforma. Non sempre si rivela necessario condividere l’immagine emersa, a volte basta lasciarla configurarsi e trasformarla nell’astuccio che custodisce un anello d’angoscia. In quegli attimi la vita si moltiplica, sopravvive, e il dolore viene
soffiato in forma, come una bolla di vetro o un suono flautato. Il dolore diventa uno scherzo d’aria per capovolgere la morte.
Quell’imperdonabile orchestrale del silenzio che è stata Cristina Campo ci ricorda che Chopin «chiamava asciuttamente Scherzi gli sguardi che gli capitava di gettare negli ossari e nelle fosse» (25), e già Pasternak intuiva nei 24 Studi dei saggi per una teoria dell’infanzia, delle preparazioni pianistiche alla morte (26). «Eterni, trasparenti fanciulli corrono tra stille di sole e frecce di verde per un eterno, trasparente giardino; i morti risorgono teneri e terribili, l’amore misura il proprio abisso, un popolo si ammanta di lutto. E l’intero miracolo riposa sul più casto degli intenti: flettere il polso almeno 600 volte, irrobustire l’articolazione del quarto dito» (27).

Bisogna fare molta attenzione, perché in questo passaggio, Cristina Campo accenna al laccio imperscrutabile che unisce infanzia, musica e morte, e contemporaneamente ci indica una via, letteralmente un metodo. Si tratta di un metodo, valido tanto per il musicista quanto per l’analista, che afferisce a un insieme di posture, gesti, agogiche esistenziali, modi di muoversi nel mondo che
potremmo sintetizzare come leggi della densità.

Densità
Il suono nella sua natura fisica costituisce un fenomeno densorio, legato a un movimento (un’oscillazione) che produce condensazioni e rarefazioni di molecole in un mezzo di trasmissione (in genere l’aria). Potremmo pensarle come una serie di enantiodromie: per esempio la corda di una viola, pizzicata, si sposta avanti e indietro, comprimendo le particelle d’aria da un lato ed espandendole dall’altro; successivamente il moto si inverte: le molecole che prima erano state compresse si espandono e viceversa. Si forma così l’inviluppo del suono, la sagoma astratta della sua presenza che può essere scomposta in quattro fasi: attacco, sostegno, decadimento e rilascio. Queste quattro stagioni del tempo (come quelle della vita) descrivono l’arco esteso dalla nascita fino all’estinzione del fenomeno sonoro, da quando iniziamo a sentire la vibrazione fin quando non torna a fondersi nel silenzio relativo degli altri suoni del mondo. In ciascuna fase la pressione sonora, e
quindi l’addensamento di molecole nell’aria, subisce delle perturbazioni.

Passando dal singolo suono a un insieme, più o meno organizzato, possiamo scorgere un campo di addensamenti, espansioni, accumulazioni e dispersioni: è questo il disegno della partitura. (O forse è il cartiglio musicale del vivere stesso?).
La forma musicale potrebbe essere immaginata come un cielo nel quale il compositore lascia entrare in scena la sua danza di nuvole: talvolta formano nembi fitti e scuri, talaltra si sfaldano in filamenti d’ovatta luminosa o si liquefanno nel rumore bianco della pioggia. Ascoltare corrisponde a poter cogliere quel movimento di nembi/suoni.
Se il compositore, a un certo punto, saturasse la densità aerea in modo totalizzante, la musica diventerebbe senza respiro e senza luce, come nei fenomeni psichici inflativi: perderebbe l’elasticità agogica, l’articolazione dinamica dell’inviluppo.
L’ascolto, musicale o analitico che sia, potrebbe essere ripensato quale pratica attentiva che consiste in un continuo, paziente, esercizio ad affinare una sensibilità alla densità. Ma per impratichirsi in questa tecnica dell’invisibile, è necessario ridestare le basi poetiche (28) della psiche.
Il legame tra musica, densità e poesia, potrebbe essere chiarito mediante una parentesi etimologica: Georges Didi-Huberman ci fa notare che nella lingua tedesca esiste «un’inquietante gemellarità tra dichtung, poesia (poesis […]) e dichtung, “densazione” (densatio)» (29). La poesia sembrerebbe pertanto una variazione di densità. Il dictum latino, da cui deriva la poesia/Dichtung, rappresenta la momentanea condensazione della parola che lega il linguaggio all’immagine, l’arte all’aria: un addensamento attentivo che sottraendo moltiplica.

In questa prospettiva, l’immagine psichica si configura quale addensamento che nasce nel momento di assordamento, e quindi nella rarefazione del linguaggio: un collasso sfuggente, l’istante d’abisso della parola, la sua mise en abyme. Qui, la virtù è negativa, «né la poesia è altra cosa dall’esercizio di questa virtù globale, comune in natura: la paziente accumulazione di tempo e di segreto che si rovescia subitamente in quel miracolo di superiore energia: la precipitazione poetica» (30).
Le sensibilità alla densità potrebbe costituire il viatico del metodo apofatico: non potendo afferrare la cosa, non sapendo come si fa a catturare immagini psichiche o la formula istantanea del comporre musicale, si può intanto togliere di mezzo il superfluo, sfrondare le parole interpretanti, i rumori automatici. Insomma, nell’attenzione alla densità, non c’è niente da fare, e al resistere si sostituisce un fiducioso, umile e concentrato abbandono. Non bisogna lottare per sconfiggere fantasmi, ma sottrarsi al gioco delle circostanze perché avvenga solo l’inevitabile. Aspettare con umiltà, fare silenzio: dei pensieri, degli affetti, dei desideri, della memoria, della comprensione – e potremmo continuare in modo indefinito tra citazioni psicoanalitiche e agiografiche.
La gestualità immobile del metodo apofatico si compone di almeno tre leggi della densità che fungono da corollario: attenzione, moltiplicazione e sprezzatura.


Attenzione
L’ascolto suggerisce un atteggiamento poetico fondato sul fare attenzione. «Un poeta che ad ogni singola cosa, del visibile e dell’invisibile, prestasse l’identica misura di attenzione, così come l’entomologo s’industria a esprimere con precisione l’inesprimibile azzurro di un’ala di libellula, questi sarebbe il poeta assoluto» (31). Così Cristina Campo introduce quell’impareggiabile maestro della densità, solista incondizionato dell’attenzione, che si chiamava Dante Alighieri. Quale trattato di psicodinamica più attento della Commedia, teoria di catabasi e risalite a riveder le stelle?

La poesia richiede attenzione, ma l’attenzione appare una delle funzioni psichiche più bistrattate dalla contemporaneità. Se utilizzassimo la proprietà transitiva, dovremmo concludere che la contemporaneità risulta sostanzialmente antipoetica.
L’immersione tecnologica produce un progressivo abbassamento delle soglie attentive: se la comunicazione è continua, ridondante e riverberata da tutti i dispositivi digitali di cui siamo circondati, ci ritroviamo in una bulimia informatica di «suoni che vengono dal vuoto e vanno verso
il vuoto» (32). Nella proliferazione di stimoli, si riduce la possibilità di stare attenti.
Contemporaneamente la qualità dell’attenzione perde di raffinatezza.
Ascoltare significa ridurre e ridurre significa limitare i fenomeni sonori a cui porre attenzione. Occorre un sano riduzionismo che non collima, però, con un appiattimento semplificatore, ma che guarda, invece, all’importanza del limite.
L’ascolto descrive un processo intrinsecamente legato all’esperienza del limite che, anche nell’etimo, richiama quella del sacro (33). Il suono è limite, perché nasce da parziali dello spettro sonoro. Se non sostiamo nella parzialità, non potremmo udire altro che frastuono o, nella migliore delle ipotesi, suoni già sentiti. È necessaria, pertanto, una riduzione fenomenologica. Non si tratta, soltanto, di limitare la quantità dei fenomeni, ma si tratta anche di ridurne la qualità: spogliarsi da quella sensibilità cristallizzata che ci fa riconoscere solo ciò che conosciamo e non ci fa sentire, di nuovo, ciò che c’era da sempre.
Bisogna risalire, a volte, dalla geografia al paesaggio, dalla parola al grido e lì forse, qualche volta, può capitare di incontrare la musica. È così che ci si esercita ad andare e tornare dall’inferno. E forse proprio in questo punto il mestiere dell’analista, del musicista o del poeta si assomigliano.
Per essere viva la parola deve ricordare il grido; allo stesso modo, per non sprofondare in un catasto dei luoghi, la geografia ha bisogno di conservare eco del paesaggio. Ma per andare e tornare dall’inferno, dalla geografia al paesaggio e di nuovo alla geografia, dalla parola scendere al grido per risalire alla parola, bisogna mettersi dei sassolini nelle tasche, pena il rischio di prendere quota, o legarsi al palo della nave, come Ulisse di fronte al silenzio delle sue Sirene (34).
Bisogna crearsi un sistema di risalita che è una corda d’attenzione. Senza quel sartiame attentivo, è impossibile trasalire all’esile trafittura del flauto.
Tradotto nei termini della composizione musicale, la creazione rappresenta un inferno che comporta di imparare ad abbandonare, temporaneamente, i vincoli della tradizione per addentrarsi nelle bizzarrie di un orecchio interno. Comporre equivale a passare attraverso la frustrazione di suoni a volte osceni o di terrificanti silenzi, aspettando, con una fiducia incrollabile, che dal disordine si formi
un nuovo ordine.
Tradotto nella pratica analitica, accade la stessa cosa: la regressione si rivela inevitabile (35), talvolta, se non ci si allena anche a regredire, si rischia di diventare scimmie parlanti. Regredire potrebbe significare allentare le maglie volontaristiche dell’Io e inabissarsi nelle turbolenze degli affetti senza fretta di risalire, a volte mettendo in dubbio le ipotesi diagnostiche, abbandonando anche le teorie, facendosi letteralmente contagiare dall’altro. Senza questi passaggi non credo si possa approdare a qualcosa di nuovo: non ci può essere trasformazione.

Insomma, l’attenzione talvolta richiede una peculiare forma di smemoratezza. D’altra parte, la riduzione, intesa come delimitazione attentiva, richiama la gestualità agraria della potatura: bisogna tagliare il superfluo per circoscrivere l’essenziale. Questa fenomenologia sfrondante ha un suo rispecchiamento compatibile anche nella nostra neurofisiologia: esiste un fenomeno designato in letteratura proprio come pruning, attivo soprattutto nel periodo dell’adolescenza fino alla prima età adulta, che consiste nella rescissione di collegamenti sinaptici superflui. La potatura risulta uno dei meccanismi basilari della plasticità sinaptica. In generale, la capacità del cervello di rimodellizzarsi, lungo tutto l’arco dell’esistenza, sembra un continuo gioco di tagli e di raccordi, di cancellature e di cuciture. L’esperienza musicale è considerata, almeno dagli ultimi quindici anni, il pane quotidiano delle neuroscienze (36), anche per questo suo legame diretto con l’attenzione che richiede plasticità.
La pratica musicale appare uno squarcio essenziale per cogliere alcuni meccanismi fondamentali del nostro funzionamento neuronale e d’altra parte un vero e proprio modello per lo studio della plasticità cerebrale (37).
In sintesi, se non c’è potatura, non possono esistere precipitazioni poetiche. In un certo senso si tratta di un elogio alla smemoratezza: bisogna dimenticare per ricordare e viceversa.


Moltiplicazione
«L’appello del flauto suscita mondi, l’appello del flauto cancella altri mondi» (38). Se riduciamo il rumore del mondo, facendo moltissima attenzione, potrebbe capitare di sentire, seppur in modo discontinuo e intermittente, il suono del flauto. Gli analisti o i compositori dovrebbero esercitarsi, come aspidi bambini, a sciogliere i propri anelli e sollevarsi dall’oscurità del canestro solo a quel suono specifico che ha su di loro potestà legittima. Bisogna imparare a mangiare di vera fame e a bere di vera sete, potando continuamente il superfluo.
Nell’opera di riduzione (il suono del flauto cancella mondi), potrebbe emergere quel soffio essenziale che genera un’infinità di altri fenomeni (il suono del flauto suscita mondi).
La sensibilità alla densità crea mondi compenetrati attraverso un processo di moltiplicazione poetica. Da un’immagine ne nasce un’altra che dell’originaria è assenza e presenza, ed è anche altra cosa: così la forma rivive, rinasce a una nuova possibilità e l’aspide può risalire seguendo il suo suono. Ma il punto archimedico che regge l’incessante moltiplicazione delle immagini psichiche è un punto
introvabile, fuori dal mondo, fuor dalla terra: un mozzo sacro.

Ritengo che la misteriosa efficacia di una musica sia proporzionale alla sua capacità di creare nessi associativi, che equivale a moltiplicare immagini. In questo senso, la potenza musicale appare intrinsecamente simbolica in quanto opaca: quanto più è densa di rimandi, e quindi non univoca all’ascolto, tanto più sarà in grado di muovere affetti. La musicalità consiste in energia dinamica catalizzatrice: la musica sta alla psiche, come il soffio alle immagini.
Potremmo sostenere che, in generale, l’arte diventa sublime quanto più resta capace di preservarsi non chiara, non chiusa, non perfetta. L’impresa più difficile è la mimesis del caos senza scadere nel rigore mortifero del cosmo: la creazione sembra dotata di un quantum di paradossalità perché nell’anelito alla forma, e quindi all’ordine, deve vigilare sulla sua capacità di conservare una certa quota di disordine. Sembra sentir risuonare le parole dello Zarathustra di Nietzsche: «Bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante» (39). Tutto consiste nel trovare almeno per un istante, riperdendola di continuo, quell’esatta misura cristallina di ordine e disordine. L’ordine
senza disordine è morte, come il disordine senza ordine è follia. La valenza estetica risulta connaturata a qualcosa di inatteso e non completamente comprensibile che la rende aperta a una moltiplicazione di sguardi, ascolti, letture. Un’opera muore quando satura l’interpretazione, quando diventa comprensibile, come una didascalia o come le parole esplicative di certi trattati di psicopatologia.
Anche questo principio associativo trova un rispecchiamento nella nostra neurobiologia.

Da un punto di vista cerebrale, l’aumento di complessità della forma risulta proporzionale all’attivazione simultanea e parallela di un numero crescente di network neuronali. Se pensiamo alle neuroimmagini di risonanza magnetica funzionale, la differenza tra l’ascolto di un jingle pubblicitario rispetto al Preludio del Tristano e Isotta di Richard Wagner consiste in una progressiva illuminazione della corteccia che diventa colorata e lucente come un albero di Natale. Aumenta non solo la quantità di porzioni corticali attivate, ma anche la distanza tra le stesse (40): un’indiretta fotografia neurale della moltiplicazione di nessi associativi. D’altra parte potremmo concludere che la valenza estetica risulti proporzionale alla sinesteticità del percetto. Una musica totale (41) è quella che, seppur così astratta, si vede, odora, ha un gusto, e sembra letteralmente abbracciarci dentro al suono.
Una musica totale è la musica per un re, un re in ascolto.
Esiste una felice moltiplicazione di immagini che intreccia la vicenda di Giorgio Manganelli con quella di Italo Calvino e del compositore Luciano Berio. In questo caso la potenza associativa è stata così forte da passare attraverso le parole di due grandi letterati del Novecento, per diventare infine opera musicale (42). Manganelli pubblica il racconto Un re, mentre successivamente Italo Calvino, a suo dire ispirato dalla voce Ascolto che Roland Barthes aveva redatto per l’Enciclopedia Einaudi, compone Un re in ascolto da cui è tratto il libretto dell’opera omonima di Berio (sebbene Calvino ne abbia dichiaratamente preso le distanze). In una conferenza all’Institute for the Humanities dell’Università di New York, nella primavera del 1983, Calvino incornicia così il suo racconto sull’udito:


Un libro che sto scrivendo parla dei cinque sensi, per dimostrare che l’uomo contemporaneo ne ha perso l’uso. Il mio problema scrivendo questo libro è che il mio olfatto non è molto sviluppato, manco d’attenzione auditiva, non sono un buongustaio, la mia sensibilità tattile è approssimativa, e sono miope. Per ognuno dei cinque sensi devo fare uno sforzo che mi permetta di padroneggiare una gamma di sensazioni e sfumature. Non so se ci riuscirò, ma in questo caso come negli altri il mio scopo non è tanto quello di fare un libro quanto quello di cambiare me stesso, scopo che penso dovrebbe essere quello d’ogni impresa umana. […] la spinta a scrivere è sempre legata alla mancanza di
qualcosa […] che ci sfugge [e] che cerca di uscire dal silenzio […] come battendo colpi su un muro di prigione (43).

Nel Re di Calvino e in quello di Manganelli abitano immagini sonore moltiplicate che potrebbero essere concepite come traduzione letteraria dei concetti di paesaggio e grido strausiani. Il paesaggio è disegnato da versi che precedono la parola, e la geografia si compone a partire da continui «sussurri, ansimi, sospiri, rintocchi, scampanellii, carillons, moti di finti animali, schiocchi di alabardieri, scampanii, trombe, giochi melodici di violini, soffi di balene, sfavillii di torce, rimbombare di voci benevole e cavernose, tentennare di folletti, sapienti tarli di secondi»(44).
Il re di Manganelli cerca un’immagine sonora che lo contenga e inizialmente ascolta tre archetipi della regalità: la «paurosa, taciturna letizia» dell’aquila, per la quale la terra è solo «topografia della preda»; la voce «che chiama e avverte» del leone, «costellazione di carne, cometa di unghie»; il «lungo gelo taciturno e pieghevole» del serpente che «simula il niente, questo sapiente, insinuante avvelenatore»: «la sua tendenza plastica è di essere lungo come il mondo, e se il mondo è rotondo, di arrivare a mordersi la coda, saldando così tutto quanto il mondo al centro del suo cerchio» (45). Ma per srotolarsi al suono del flauto e riconoscere la propria estensione, l’uroboro di Manganelli insieme all’aspide della Campo devono esaudire l’oracolo delfico; allo stesso scopo, il re, inconsapevole compositore, si avvale di «un ispettore senza forma»: un «breve riso» (46). Il riso che il re emette risuona nella reggia e, riflettendosi, rifrangendosi e diffrangendosi su tutti i complessi interni, la ispeziona, per restituirgli la sua vastità di immenso corpo musicale. Il palazzo è l’orecchio del re. È il corpo regale: una partitura estesa quanto e oltre la propria durata, alla ricerca della prova incontrovertibile che i suoni provengano da dentro e non da fuori.

Anche il re di Calvino, pur essendo un re, non è immune dalla legge dell’attenzione: «Fai bene ad ascoltare – gli suggerisce l’autore – a non allentare neanche per un attimo la tua attenzione; ma convinciti di questo: è te stesso che stai sentendo, è dentro di te che i fantasmi prendono voce».
Insomma, l’Io non è padrone neanche nel proprio palazzo reale! D’altra parte, «Ogni palazzo poggia su sotterranei dove è sepolto qualche vivo o dove qualche morto non ha pace. Non è il caso che ti tappi le orecchie con le mani: tanto continuerai a sentirli lo stesso» (47).
Questo suono, ora indiretto ora più presente, rimbalza, si allunga, percorre spazi inenarrabilmente estesi e poi ritorna:


Questa è la musica che senti; ma si può chiamare musica? […] Da quando sei salito al trono non è la musica che ascolti, ma solo la conferma di come la musica viene usata: nei riti della buona società, o per l’intrattenimento della folla, per la salvaguardia delle tradizioni, la cultura, la moda. Ora ti domandi cosa voleva dire per te ascoltare una musica per il solo piacere d’entrare nel disegno delle note (48).


La musica che il re ascolta, plasticamente, disegna la realtà fino a rivelarsi nella sua letterale oscenità
(fuori dalla scena) come voce. Una voce di donna forse, forse quella dell’anima del re.

È un te stesso senza corpo che ascolta quella voce senza corpo […] Una voce significa questo: c’è una persona viva, gola, torace, sentimenti, che spinge nell’aria questa voce diversa da tutte le altre voci. Una voce mette in gioco l’ugola, la saliva, l’infanzia, la patina della vita vissuta, le intenzioni della mente, il piacere di dare una propria forma alle onde sonore. Ciò che ti attira è il piacere che questa voce mette nell’esistere: nell’esistere come voce, ma questo piacere ti porta a immaginare il modo in cui la persona potrebbe essere diversa da ogni altra quanto è diversa la voce (49).

Nel riconoscere la specificità dell’immagine-voce, trasalendo all’esile trafittura del flauto, risiede la contemplazione dell’udito, o della propria specifica individualità acustica. Insomma il re, prima di essere un regale, è egli stesso una nota.
I racconti di Calvino e di Manganelli costituiscono una potente allegoria del processo di individuazione descritto da Jung e, contemporaneamente, del nesso tra suono e psiche.


Sprezzatura
Dopo aver teso l’orecchio con attenzione, riducendo la fenomenologia sonora, dopo essere giunti a quel grado zero in cui dal silenzio le immagini prendono forma e si moltiplicano, bisogna infine adoperare un sano tocco di sprezzatura. La terza legge della densità, che accomuna il mestiere del musicista a quello dell’analista, richiede semplificazione e assomiglia al gioco di soffiare la forma un po’ più in là.
Questo principio di leggerezza si impone in particolare nel momento dia-lettico dell’arte, quello in cui il suono o la parola, transita da dentro a fuori, incontrando un orecchio altro.

In musica o in analisi, dopo aver studiato a menadito la tecnica, bisogna alleggerire, alleggerirsi per raggiungere l’altro o almeno per sfiorarlo.
Cristina Campo descrive la sprezzatura via negationis, come Jacopone da Todi si riferisce all’esperienza di Dio – «quello ch’è non si può dire/ puossi dir quel che non è» (50). E allora sprezzatura non è sinonimo di eleganza, che della parola sorella perde il gusto fresco e la qualità creativa; né si può confinare nella deliberazione del piglio o dissolvere nella gestualità della disinvoltura. La noncuranza le fa da scorza, come se della sprezzatura costituisse la forma cava e momentanea, la sua definizione in negativo.

«Facilment, facilment» era la formula magica che Chopin ripeteva agli allievi «doveva la mano cadere dall’alto, quasi gettata per gioco sulla tastiera, mai serrarsi ai tasti con ansiosa ostinazione, come lo schiavo schiacciato sulla ringhiera» (51).

Con la stessa facilità, l’analista dovrebbe riuscire a proferire parole ordinarie e patiche al suo paziente, (anche in vernacolo quando occorre, senza pudore di inoltrarsi nell’antro incarnato della lingua che si compone di proverbi, luoghi comuni, espressioni idiomatiche e familiari). Facilment, questo avverbio della sprezzatura, esige di dimenticare l’astruseria del linguaggio tecnico e di sfoltire le eccedenze barocche della significazione.Sprezzare assomiglia a semplificare con levità: «Con lieve cuore, con lievi mani, la vita prendere, la vita lasciare» (52) recita il primo atto dell’opera Il Cavaliere della Rosa, libretto di Hugo von Hofmannsthal, musiche di Richard Strauss.

Nella sprezzatura riverbera «l’incalcolabile tocco dell’azzardo» (53), che non corrisponde, tuttavia, alla tracotanza di chi non ammette limiti, ma alla quota di disordine che rende più vivo l’ordine. Per condensare in un’immagine questa disposizione, Cristina Campo propone un antico precetto giapponese che non riconosce completa la cura del giardino, se non la compia «un casuale ricamo di foglie rosse» (54). (Tra quelle foglie, per esempio, si colloca per l’analista la possibilità di accogliere il cosiddetto enactment, non come deformità agita, ma come occasione per infondere nuova linfa alla relazione. Per il musicista, il casuale ricamo richiede di tenersi aperti anche all’improvvisazione o a soluzioni non convenzionali, come prendere qualche nota con il naso, quando la mano è troppo piccola per suonarle tutte).
«Saggezza temeraria, prudenza ardimentosa» (55), la terza legge della densità rappresenta quella modulazione peculiare che coniuga un soffio di coraggio alla leggerezza, quasi incosciente, di una gioia essenziale (come la gioia di esistere); ma questo impasto armonico non può comporsi, se si rinuncia alla sapiente coloritura dell’ironia.
«Sprezzatura è un ritmo morale, è la musica di una grazia interiore; è il tempo, vorrei dire, nel quale si manifesta la compiuta libertà di un destino, inflessibilmente misurata, tuttavia, su un’ascesi coperta» (56).
La terza legge della densità ci riporta alla santa indifferenza e alla litania dell’umiltà che anela a liberarsi anche dal desiderio di piacere, come sottolineava Carmelo Bene quando affermava: «non sono qui per piacervi» (57). Il primo desiderio a cui un musicista deve rinunciare per suonare davvero – e che un analista deve controllare per non cedere alle trappole della lusinga – è proprio quello di piacere.
Ma nell’umiltà e nella rinuncia, è importante rispettare un ammonimento estetico che si ritrova anche nei Vangeli: «quando digiuni, ungiti il capo e lavati la faccia, affinché non appaia agli uomini digiunante, ma al padre tuo che è nel segreto» (58). È così che il musicista si presenta in concerto o l’analista in seduta, con i capelli ravviati e il viso pulito. È in questo modo che ci si accosta ai «momenti liturgici della vita: quegli spazi sacri dentro e fuori del tempo dove gli uomini si raccolgono a ricomporre, in una mimesi stilizzata, il loro nesso con Dio». Un “Dio”, che in analisi e in musica, resta aconfessionale e simbolico e che – Jung ci ricorda (59) – è un ottimo nome, perché chiamarlo
diversamente?

Note
(1) R. Otto (1917), Il Sacro, SE, Milano, 2009.
(2) “Che cosa è la musica?” è la domanda che il compositore Luciano Berio, nella prima puntata del programma C’è
Musica & Musica
, andata in onda il 22 febbraio 1972, rivolese a una serie di importanti musicisti del Novecento. È
possibile ascoltare le loro risposte al seguente link: http://www.teche.rai.it/2015/02/che-cose-la-musica/ .
(3) L. Berio (1990), «La musica è un’architettura di suoni. Conversazione tra Luciano Berio e Renzo Piano», in V.C.
Ottomano (a cura di), Interviste e colloqui, Einaudi, Torino, 2017, p. 207.
(4) Cfr. V. Jankélévitch (1961), La musica e l’ineffabile, Bompiani, Milano, 2001.
(5) Cfr. C.G. Jung (1933), «Realtà e surrealtà», Opere, vol. 8, Bollati Boringhieri, Torino, 1996, pp. 411-413.
(6) Cfr. C.G. Jung (1921), «Simbolo», «Definizioni», Tipi psicologici, Opere, vol. 6, Bollati Boringhieri, Torino, 1996,
pp. 525-533.
(7) Ivi, p. 525.
(8) Agostino d’Ippona (389 c.a.), De Musica, Augustinus, Palermo, 1990.
(9) J.-J. Nattiez, «Musica e significato», Enciclopedia della Musica, vol. 9, Einaudi, Torino, 2007, pp. 206-238.
(10) L. Wittgenstein (1958), Libro blu e Libro marrone, Einaudi, Torino, 1983, p. 213.
(11) G. Manganelli (1980), Una profonda invidia per la musica. Invenzione a due voci con Paolo Terni, L’orma, Roma,
2014.
(12) Cfr. C.G. Jung (1921), «Simbolo», «Definizioni», op. cit..
(13) Il nome Metastasio pseudonimo di Pietro Antonio Domenico Bonaventura Trapassi fu scelto dal noto librettista come
traduzione greca del verbo “trapassare”; cfr. E. Trevi (2018), Sogni e favole, Ponte alle Grazie, Milano, 2018, p. 39.
(14) F. Nietzsche (1872/1886), La nascita della tragedia dallo spirito della musica, ovvero grecità e pessimismo, Einaudi,
Torino, 2009.
(15) Nel primo libro delle Metamorfosi, Ovidio racconta la nascita del flauto di Pan a partire dal fallito tentativo del dio
di catturare la ninfa Siringa.
(16) «Noi non faremo come facevano gli antichi che proiettavano i rapporti terrestri nello spazio cosmico, ma sentiamo
estendersi fino nelle più minute particelle costruttive musicali forze che sono le stesse di quelle che mantengono in
movimento il cielo fino alle nebulose più lontane». P. Hindemith, Unterweisung im Tonsatz, B. Schött’s Söhne, Mainz
1937, p. 71; cit. in G. Piana, «La composizione armonica del suono e la serie delle affinità tonali in Hindemith», Sonus. Materiali per la musica moderna e contemporanea, n. 21-22, 2002.
(17) Si pensi, per esempio, alla vicenda biografica di Nicolò Paganini; cfr. N. Salvaneschi, Un violino 23 donne e il
diavolo
, Corbaccio, Milano, 1938. Accanto a Paganini, si possono annoverare numerosi compositori caratterizzati da vite
particolarmente tormentate che sconfinano a volte in leggende nere, come nel caso del compositore secentesco Alessandro
Stradella.
(18) Cfr. B. Pascal, Pensieri (ed. 1669), 565 Chevalier, 677 Brunschvicg, Bompiani, Milano 2000, p. 333.
(19) C. Campo (1971), «Il flauto e il tappeto», Gli imperdonabili, Adelphi, Milano, 1987, p. 136.
(20) Il dialogo è tratto dal film Tutte le mattine del mondo di Alain Corneau, ispirato all’omonimo romanzo di P. Quinard,
Gallimard, Paris, 1991.
(21) E. Straus (1935), Vom Sinn der Sinne, Springer, Berlin, tr. fr., Du sens des sens. Contribution à l’étude des fondements
de la psychologie
, Millon, Grenoble 2000.
(22) Perdonate il riferimento a una mia recente pubblicazione: La lingua padre, Mimesis, Milano, 2021.
(23) C. Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto, Il Saggiatore, Milano 1966, p. 36.
11
(24) C. Campo, op. cit., p. 88.
(25) Ivi, p. 104.
(26) Ivi, p. 80.
(27) Ibidem.
(28) J. Hillman (1979), «Image-sense», in B. Sells, Working with images. The theoretical base of archetypal psychology,
Spring, Washington 2000, pp. 171-185.
(29) G. Didi-Huberman (2005), Gesti d’aria e di pietra. Corpo, parola, soffio e immagine, Diabasis, Reggio Emilia, 2006,
p. 58.
(30) C. Campo, op. cit., p. 122.
(31) Ivi, p. 83.
(32) Cfr. F. Fellini, Otto e mezzo, 1963, discorso dell’intellettuale Carini: «[…] in fondo avremmo solo bisogno di un po’
di igiene, di pulizia, di disinfettare. Siamo soffocati dalle parole, dalle immagini, dai suoni, che non hanno ragione di vita,
che vengono dal vuoto e vanno verso il vuoto. A un’artista, veramente degno di questo nome, non bisognerebbe chiedere
che quest’atto di lealtà: educarsi al silenzio». Queste parole risuonano con un’intensità amplificata se ripensiamo al Covid-
19 come sindemia.
(33) Il sanscrito *sak– indica l’aderire che è anche un avvincere e l’aggettivo “sacro” rappresenta originariamente ciò che
aderendo separa, opponendo il fanum (la manifestazione, il tempio) al profanum (lo spazio che sta di fronte al tempio).
(34) F. Kafka (1917-1924), Il silenzio delle sirene. Scritti e frammenti postumi, Feltrinelli, Milano 1994.
(35) Cfr. A. Ruberto, «Andare avanti tornare indietro. Sui volti dell’autorità», Atque. Materiali tra filosofia e psicoterapia,
n. 26-27, 2020, in corso di pubblicazione.
(36) R. Zatorre, «Music, the food of neuroscience?», Nature, 434, 2005, pp. 312-315.
(37) G. Schlaug, «Musicians and music making as a model for the study of brain plasticity», Progress in Brain Research,
217, 2015, pp. 37-55.
(38) C. Campo, op. cit., p. 126.
(39) F. Nietzsche (1883), Così parlò Zarathustra, Mondadori, Milano, 1992, p. 12.
(40) S. Zeki (2009), Splendori e miserie del cervello, Codice, Torino, 2010.
(41) Cfr. al concetto di Gesamtkunstwerk, “Opera d’arte totale”, di Richard Wagner.
(42) Per approfondire si veda A. Cortellessa, «L’onta del significato», in G. Manganelli (1980), op. cit., pp. 109-147.
(43) I. Calvino (1972-1984), Sotto il sole giaguaro, Mondadori, Milano, 2016, pp. VI-VII.
(44) G. Manganelli (1972), «Un Re», in Id., Agli dei ulteriori, Adelphi, Milano, 1989, p. 26.
(45) Ivi, pp. 14-17
(46) Ivi, pp. 20-21
(47) I. Calvino (1972-1984), «Un re in ascolto», in Id., op. cit., p. 60.
(48) Ivi, pp. 59-62.
(49) Ivi, p. 63.
(50) Cfr. C. Campo, op. cit., p. 256, nota 87.
(51) Ivi, p. 104.
(52) H. von Hofmannsthal, Narrazioni e poesie, I Meridiani, Mondadori, Milano 1989, p. 348; cit. in C. Campo, op. cit.,
p. 100.
(53) C. Campo, op. cit., p. 98.
(54) Ibidem.
(55) Ivi, p. 99.
(56) Ivi, p. 100.
(57) C. Bene, passim.
(58) Matteo, 6, 17-18.
(59) Cfr. C.G. Jung (1959), «Letter to Valentine Brooke», in Id., Letters (1951-1961), vol. 2, Routledge, London, 1976,
pp. 520-523.