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Fare una diagnosi è sempre problematico, fare una diagnosi di trauma lo è ancora di più. Per primo, il trauma condivide con altre diagnosi psichiatriche la debolezza nella definizione; nel caso specifico poi, il PTSD – Post Traumatic Stress Disorder – definisce una reazione ad eventi che è caratterizzata da estrema soggettività. Più che di trauma sarebbe bene parlare di esperienza traumatica per evitare la cristallizzazione patologica definitoria e riportare la patologia in seno all’esperienza.
Un’altra difficoltà per il PTSD consiste nell’uso troppo ampio che a volte viene fatto per aprire molteplici porte psicopatologiche, ma, come spesso accade, diagnosi troppo allargate e generiche che comprendono patologie anche molto difformi, non sono particolarmente utili, facendo perdere l’elemento specifico.
Vittorio Lingiardi si pone dal lato di coloro che non inseguono definizioni troppo teoriche, troppo precise e troppo avulse dai “fatti” esperiti e riflette sul fatto che la diagnosi non può approdare a una definizione in quanto contiene in sé una “storia”, perché è la stessa patologia ad essere una storia, e, nella relazione medico-paziente, la storia del paziente va a confluire con l’orizzonte professionale e culturale del terapeuta ed è principalmente in questa dimensione ermeneutica che si può porre la diagnosi: una diagnosi che non serve solo al terapeuta ma anche al paziente per ampliare il proprio bagaglio di conoscenze di sé. Lo stesso Freud, partito dalla reazione automatica delle pazienti isteriche con il cosiddetto arco riflesso, ampliò talmente tanto la distanza fra la sollecitazione pulsionale e la risposta da includere l’intera storia della paziente.
Lo scrittore inglese Forster (citato in Lingiardi 2018) diceva: «“Il re morì, poi morì la regina”, questa è una storia, ma “Il re morì, poi di dolore morì la regina”, questa è una trama”». È l’introduzione del sentimento “dolore”, quel pathos per cui anche la malattia è una trama; è quel pathos che, accolto dal terapeuta, trasforma una ricostruzione oggettiva, patologica, in una trama di cui ci si può appropriare e per la quale la reazione soggettiva è centrale.
Proprio perché fortemente connessa alla storia personale del paziente, la diagnosi può essere solo orientativa, sempre velata di provvisorietà e di incertezza. Se questo è vero sempre, nel caso di diagnosi di “trauma” dovremmo fare ancora più attenzione perché nulla è più lontano da una definizione e più vicino alla storia vissuta dal paziente.
Piuttosto che fissarsi su una definizione diagnostica (Jung sosteneva che le diagnosi più corrette sono quelle che si formulano alla fine di un percorso di analisi), è preferibile argomentare intorno al trauma partendo dallo sfondo della psicopatologia fenomenologica e articolando le riflessioni con la psicologia della dissociazione. Già Freud con l’introduzione dell’inconscio aveva dissociato quella psiche che filosofia e psicologia tendevano a ricomprendere tutta all’interno della conoscenza razionale e della coscienza. Ma sappiamo che il primo che ha formulato una vera e propria ipotesi psicologica sulla dissociabilità della psiche è stato Pierre Janet a cui tanto Freud quanto Jung devono molto, anche se il primo quasi lo esclude dai suoi scritti e il secondo ne fa menzioni molto parsimoniose, e senza che entrambi ne riconoscano l’origine in alcune delle loro principali intuizioni. Jung tuttavia, in modo di gran lunga maggiore di Freud, è stato ed è considerato fra i primi psicoanalisti teorici della psiche dissociata e dissociabile: per i “suoi” “complessi a tonalità affettiva” usa la metafora della psiche come “arcipelago” formata dai complessi che ne sono le isole.
Caratteristica principale di questi complessi è creare una dinamica di “primo piano” e “sfondo”, per cui alcuni di essi, in particolari circostanze di vita, sprofondano, si dissociano e contemporaneamente emergono nuovi complessi.
Fra i segni più evidenti di uno shock traumatico troviamo l’interruzione del flusso della coscienza, la rottura tra il piano emozionale e il piano semantico, l’arresto del senso dello scorrere del tempo, il restringimento dello spazio psichico e funzionamento psichico a compartimenti incomunicabili tra loro, una psiche frammentata. Una sintomatologia che riesce a gettare un ponte significativo tra le descrizioni dei vissuti dell’esperienza traumatica con le più ampie categorie dello spazio e del tempo insieme all’idea, sperimentalmente comprovata, della dissociazione psichica.
Ma, mi chiedo, come, in presenza di esperienze traumatiche riportate come “storie” vissute in quanto trame patologiche, distaccate e oggettive, poter giungere alla costruzione di trame e storie soggettive? Come trasformare il racconto di una storia, quandanche ci sia, in una trama di senso di cui potersi appropriare nella sua interezza? Come lavorare per integrare il doppio registro della dissociazione psichica e dell’esperienza traumatica nel contesto socio-culturale della persona e nella dimensione psichica esistenziale? Come rapportarsi al sentimento di arresto del tempo, di arresto del suo scorrere che è quanto per lo più riportano i pazienti con vissuti traumatici?
Flusso di Coscienza e Dissociazione
L’esperienza traumatica interrompe il fluire ordinato della coscienza che segue la direzionalità spazio-temporale di tipo cronologico e si posiziona come ostacolo al proseguimento della coscienza per la via già tracciata. Si interrompe il tono emotivo della coscienza, quel timbro, quella tonalità che coordina gli elementi semplici della psiche quali sentimenti, immagini, pensieri, idee, rappresentazioni; nelle situazioni traumatiche l’irruzione di una tonalità affettiva estremamente forte, e di tipologia difforme dalla continuità coscienziale, interrompe il corso di una vita e la assorbe più o meno interamente al proprio interno, provocandone una deviazione: è uno shock emotivo.
L’interruzione della coscienza intesa come un flusso che ordinariamente scorre in modo continuo è la chiave di volta per comprendere molte delle teorie e ipotesi psicologiche che oggi vengono avanzate sulla patologie traumatiche: diagnosi di trauma e dissociazione della psiche vanno di pari passo e oggi sono soprattutto le teorie dissociative che supportano una comprensione dell’evento traumatico.
Per dissociazione si intende quel movimento psichico per cui una parte della psiche sprofonda in una zona in cui non è assicurato il flusso della coscienza, non fa più parte della coscienza, diventa inconscio. Ora, se alcuni contenuti cadono sotto la soglia della coscienza, e questo potrebbe essere spiegato da uno shock traumatico, differente è però ancora oggi il modo di considerare la psiche rispetto alla dissociazione. Alcuni sostengono che la dissociazione è un processo patologico che interviene solo in caso di shock emotivo ma che ordinariamente la psiche funziona in continuità. Sono i teorici della centralità della coscienza nella vita psichica e di una visione dei processi psichici che chiamerei “in positivo”, sono i teorici della coscienza intesa come luce che rischiara l’esistenza senza la quale saremmo nel buio delle pulsioni e degli istinti primari.
Ci sono altri studiosi che, viceversa, considerano la psiche come costitutivamente dissociabile, per cui, anche nel suo movimento continuo e ordinario, alberga in sé la dissociazione, ovvero la possibilità e la realtà effettiva che alcuni contenuti, in modo naturale, si dissocino per varie esigenze di vita; il trauma non sarebbe altro che uno dei punti raggiunti da un’intensità emotiva estrema che fa sì che non solo non si affacci alla soglia della coscienza, ma ancor più che riesce a colorare di sé l’intera esistenza del soggetto traumatizzato. In questa prospettiva si potrebbero dividere i traumi in microtraumaticità non percepita, quotidiana, perché così funziona la psiche, e macrotraumaticità che potenzia in intensità la reazione emotiva fino a operare, nei casi più gravi, una torsione del flusso della coscienza che prende una via differente da quella su cui prima si era incamminato.
Catherine Malabou
Catherine Malabou è una filosofa francese che ha scritto alcune pagine interessanti anche per gli psicoanalisti sulle esperienze traumatiche. Prenderò qui in considerazione in particolare il suo libro del 2019 Ontologia dell’accidente. Saggio sulla plasticità distruttrice.
«Nella maggior parte dei casi le vite seguono il loro corso, come i fiumi. Talvolta abbandonano il proprio letto senza alcun motivo geologico, senza che alcun tracciato sotterraneo consenta di spiegare tale inondazione o tale straripamento. La forma improvvisamente deviante, deviata, di queste vite è la plasticità esplosiva» (Malabou 2019, p. 32).
Come non vi sono spiegazioni comprensibili per cui un fiume a volte lascia il suo letto per straripare e prendere un corso secondario, così, per la filosofa francese, il fluire di una vita subisce eventi del tutto casuali che modificano il corso dell’esistenza.
Un fiume che straripando lascia il proprio letto dà vita a un nuovo percorso, un nuovo modo di fluire nel terreno, ci troviamo di fronte a una nuova forma della natura. Una vita toccata da vissuti traumatici è segnata da una sorta di “straripamento emotivo” che ne impedisce il recupero dello status quo ante.
Catherine Malabou concentra il suo discorso su due punti di pensiero filosofico che rivelano la possibilità molto concreta di dialogare con la psicoanalisi della traumaticità, Per la neurobiologia e per le teorie evoluzionistiche la plasticità del cervello è nota, è nota la sua capacità di adattarsi ai cambiamenti della vita e alle trasformazioni della sfera emotiva. Freud aveva parlato di plasticità della vita psichica, «il carattere indistruttibile delle impronte che formano il destino psichico del soggetto» (Malabou 2019, p. 66). Ogni traccia è indelebile e rimane. Per Freud la plasticità riguarda anche la libido che, perdendo il proprio oggetto, ne cerca uno nuovo e si “adatta” a dar vita ad un diverso flusso libidico. Nel primo caso ogni traccia permane in quanto ha segnato di sé la psiche ma può essere modificata, riformata, trasformata, ma non cancellata. Nel secondo caso la plasticità indica la possibilità di cambiare investimento libidico. Gli studi sul cervello in quanto organo ma anche in quanto ricompreso nella più includente sfera psichica, indicano che se le connessioni sinaptiche cambiano, anche la personalità può cambiare (LeDoux cit. in Malabou 2019, p. 70). Ricordiamo poi Phineas Gage che, a seguito di un incidente in cui perse gran parte delle funzioni del lobo frontale, acquisì un’altra personalità, contraria alla prima per molti aspetti (Damasio 1995).
Ma allora ci si deve chiedere quale potrà essere l’esito identitario a seguito di un vissuto traumatico. Come si inserisce il vissuto traumatico nella propria vita?
Il vissuto traumatico che ha interrotto il fluire della vita e della coscienza che la affianca – secondo Malabou – dà origine a una “nuova forma” nata dall’accidente e per l’accidente che chiama mostro.
Il mostro, prima di essere figura negativa, paurosa e perturbante è monstrum, qualcosa da mostrare, è un’apparizione sul piano fenomenico; il mostro è quel fenomeno nuovo che esprime la nuova identità, una nuova forma identitaria che compare quando un filo vitale è stato interrotto e, non potendo tornare alla stato precedente, reclama una sua delucidazione e una sua narrazione.
Conosciamo la storia di Dafne che, per sfuggire ad Apollo che si era invaghito di lei, pur di non cedere al suo desiderio si trasforma in albero di alloro, acquisendo così una nuova forma identitaria, a protezione di quel “se stessa” (la sua verginità) che era stata minacciata dal dio. Ma a questo mito Catherine Malabou offre una lettura diversa, che tenga conto non solo della “storia”, del racconto che conosciamo, ma anche della “trama”, ovvero del pathos di Dafne che sta per essere ghermita da Apollo. Certo non conosciamo lo stato d’animo della ninfa ma il mito
racconta che Dafne si trasforma in alloro nel momento in cui il dio l’ha raggiunta e sta per afferrarla.

Questo particolare suggerisce alla filosofa francese che la nuova forma-alloro di Dafne sia avvenuta in sostituzione della fuga, non essendo lei sufficientemente veloce per sfuggire alla presa del dio. La nuova identità della ninfa non sarebbe quindi quella di un albero di alloro e neppure quella di lei che fugge dal dio, ma questa nuova identità assunta dalla ninfa sarebbe quella dell’impossibilità di fuggire: la forma di una impossibilità, la creazione cioè di una nuova “trama” di identità. Malabou mette in relazione le forme identitarie nuove con l’impossibile e non con il possibile, l’impossibile che si potrebbe anche connotare come il negativo assoluto, qualcosa la cui realtà ha segnato la persona con un vissuto traumatico, negandole la possibilità di tornare indietro per ripristinare quanto era prima dell’evento. Malabou ci indirizza a confrontarci con i limiti della vita e a sviluppare una capacità di superarli nel solo modo possibile: riconoscendoli e facendoli propri.
L’uomo natura e l’uomo cultura
Tentare di colmare la tradizionale separazione tra l’uomo-natura e l’uomo-cultura è uno dei progetti filosofici di Catherine Malabou. Lo ha detto chiaramente in una conferenza all’IISF: «Questa separazione tra l’uomo biologico e l’uomo simbolico è una catastrofe, è una guerra in cui
la filosofia è perdente. Continuiamo così ad avere un uomo diviso a metà, da un lato l’uomo biologico dall’altro l’uomo simbolico» (lo riporto quasi letteralmente in traduzione dall’inglese) (https://www.youtube.com/watch?v=MR7d-wLF240&t=4025s)
Se le scienze si aprono a discorsi sulla soggettività, la filosofia non può non aprirsi a parlare di patologia, di cervello e di sinapsi. Si tratta anche di appropriarsi di un linguaggio comune. L’accidente è quell’esperienza che ferisce la psiche in modo irreparabile, determinando l’impossibilità di ripristinare la condizione antecedente e il mostro non è altro che la nuova forma che prende un essere umano a seguito di un evento non previsto e, soprattutto, subìto, uno sconvolgimento non solo momentaneo ma duraturo nel tempo. Il trauma è quel vulnus psichico che lacera le carni tanto del corpo quanto della psiche e che si insedia all’interno e sconvolge l’intero assetto vitale della persona (ci si imbatte in pazienti che, a seguito di vissuti traumatici, sviluppano diverse patologie tra le quali, in certi casi, disturbi dell’alimentazione con ricadute “corporee” importanti).
Nella clinica i pazienti traumatizzati presentano frequentemente due patologie: nella prima si manifesta un processo di dissociazione per cui l’emozione si separa dal pensiero e dal linguaggio e si assiste all’incapacità di raccontare il trauma vissuto; non ci sono parole per dirlo, il linguaggio si è bloccata, l’emozione risulta congelata, il paziente non riesce ad accedere al piano emotivo: in questo caso si tratta di rimettere in connessione di senso il piano emotivo e il piano cognitivo. In una seconda espressione psicopatogica, i pazienti traumatizzati si mostrano poveri di capacità di descrizione verbale in quanto poveri di capacità linguistiche in generale, poveri cioè di potenzialità e capacità espressive.
Per un paziente traumatizzato si tratta di recuperare quella funzione simbolica che, specifica dell’umano, consente di lavorare con il linguaggio per articolare al meglio la conoscenza del proprio mondo ambiente e di se stessi, nella conoscenza non solo degli oggetti ma anche dei vincoli a cui il procedimento simbolico è tenuto. La condizione è incidere su quel corpo che ha reagito all’esperienza traumatica perché, congelando la capacità linguistica, il corpo ha reagito in condizione di automatismo, ha messo in atto una reazione automatica, si è prodotto un cortocircuito. Si tratterebbe quindi di ristabilire nessi tra l’esperienza patologica dell’automatismo del corpo, che oramai è avvenuta e ha inciso profondamente la parte psichica cerebrale, e l’attribuzione di significato, quel piano semantico che gode di molteplici capacità referenziali, anche se non infinite. L’indagine sull’origine del linguaggio è considerata una delle «vie d’accesso più promettenti per capire la logica che connette processi cognitivi e organizzazione del cervello. «Biologicamente, non siamo che una nuova specie di grande scimmia. Mentalmente, invece, siamo un nuovo phylum di organismi» ( Deacon 2001, p. 5).
Laddove le richieste mentali peculiari del linguaggio si riflettono in differenze neuroanatomiche altrettanto speciali, allora siamo in presenza di un esempio cristallino di corrispondenza, operato dalla natura, tra differenze cognitive e differenze di struttura del cervello.” (ivi, p. 7). Si tratta di un’anomalia evolutiva che Deacon chiama “la teoria del mostro promettente”, una sorta di scordinamento tra struttura evolutiva biologica e competenze cognitive. L’indagine sul linguaggio evidenzia proprio questa condizione per cui un segnale linguistico deve manifestare una forma combinatoria in cui gli elementi distintivi ricorrono in combinazioni differenti, evidenziando una produttività creativa di segnali. Si limita pertanto l’uso del metodo comparativo tra l’uomo e le altre specie.
I due riferimenti di Deacon sono Peirce e Chomsky, in controdendenza con quest’ultimo, teorico dell’innatismo della grammatica universale, Deacon considera semplicistica la sua ipotesi, che risolve con un colpo di spugna le difficoltà insite in una spiegazione derivata dall’apprendimento ma non “spiega” l’origine della forma linguistica nella specie umana. Ciò che manca è «una valida spiegazione dell’origine delle capacità sintattiche e grammaticali dei bambini in termini di antecedenti nell’esperienza linguistica del bambino» (ivi, p. 19). Ipotizzare un “istinto” per la grammatica rappresenta un passpartout per tutto ciò che non può essere appreso: non trovando una spiegazione soddisfacente del modo in cui la conoscenza grammaticale si imprime nella mente del bambino dall’esterno, ci è naturale pensare che essa non provenga affatto dall’esterno. È in questione la teoria della specificità della specie umana che è identificata nel linguaggio che è a sua volta debitore della divaricazione tra segno e significato. La differenza resta quel “miracolo” quotidiano che è rappresentato dal significato e dal riferimento verbale. Nella coevoluzione di cervello e linguaggio si potrebbe porre la promessa del mostro come forma specifica dell’umano, un intervallo tra segno e significato, una polarità che non prende posizione per uno a scapito dell’altro corno della polarità stessa ma che, nel linguaggio, porta avanti insieme tanto il segno verbale quanto il significato in una sorta di dinamica coevolutiva di cui il linguaggio costituirebbe l’asse centrale.
La scoperta di una nuova associazione simbolica è un evento di ristrutturazione, in cui le associazioni già apprese vengono istantaneamente percepite sotto una nuova luce. I simboli non si riferiscono direttamente agli oggetti ma ad altri simboli, sono implicitamente entità combinatorie il cui potere referenziale dipende dall’occupazione di posizioni specifiche in un sistema organizzato di altri simboli. Ciò che è particolarmente importante e interessante è il fatto che il riferimento simbolico emerge da una radice di processi referenziali non simbolici. I simboli non si accumulano in collezioni prive di struttura, arbitrariamente rimescolabili in combinazioni differenti. Si tratta di un’enorme rete gerarchica che definisce un enorme spazio semantico in mutamento continuo. Le stringhe di simboli usate per comunicare e per realizzare certi fini devono ereditare sia i vincoli intrinseci del riferimento simbolico, sia i vincoli imposti dal riferimento stesso. Il riferimento simbolico è intrinsecamente sistemico, la struttura sintattica è parte integrante del riferimento simbolico: sintassi e semantica sono aspetti profondamente interdipendenti del linguaggio. Il fatto che i simboli non si accumulino in costruzioni prive di struttura, rimescolabili arbitrariamente, ma che vanno a costituire una gigantesca rete gerarchica che va a formare un altrettanto gigantesco spazio semantico – vi sono cioè vincoli appresi ed ereditati intrinseci al riferimento simbolico – ha inevitabili ricadute sulla questione dell’identità, su ciò che muta e ciò che permane, tra l’essere e il divenire, tra la sostanza e gli accidenti.
La distinzione tra sostanza e accidente, che ha inaugurato la metafisica, è stata il fulcro intorno a cui si è dispiegata la tradizione filosofica occidentale: l’accidente muta e la sostanza rimane. Un discorso che ha avuto ricadute importante sul concetto di identità, per cui, pur nelle vicissitudini della vita e nei vari cambiamenti esterni ed interni, un nucleo identitario permane ed è ciò che mi fa dire “Io”, riconoscendomi. La questione è ancora aperta. Ricoeur ha affrontato la problematica con la relazione dialettica tra idem e ipse, dove l’idem rimanda al carattere, alla continuità, alla costanza, l’ipse al confronto con le potenzialità di essere altro: è nel gioco relazionale tra l’essere Sé e l’essere aperto all’Altro-da-sé che si colloca una struttura identitaria contemporaneamente unitaria ma scindibile, salda ma esposta a tutti gli ‘inganni’ della psiche che esitano nella patologia.
Se trasferiamo l’esempio alla psicopatologia della traumaticità parliamo di reazione dissociativa a un qualche evento che si è verificato nel mondo esterno. Ciò che viene compromesso nei casi di vissuti traumatici è la funzione riflessiva, lo shock traumatico opera una sorta di cortocircuito tra sé e la reazione emotiva, viene a mancare la possibilità di interporre quel discernimento riflessivo che è funzione al servizio dell’Io, della persona nel suo complesso e nel suo dispiegarsi nel tempo. La reazione esclusivamente emotiva soddisfa solo sul momento e solo una parte di personalità; è necessario frapporre un certo intervallo psichico e un certo tempo perché la risposta soddisfi l’equilibrio personale più a lungo e in modo più stabile. Ora, è proprio questa funzione riflessiva, superiore nel senso di maggiormente al servizio dell’integrità dell’Io, ad essere implicata nelle esperienze traumatiche e a rimanere danneggiata nel trauma; le risposte del paziente che ha subito eventi traumatici sono spesso reazioni scomposte, su un’onda emotiva che sembrano non apportare alcun benificio per la persona stessa (Correale 2010).
Ma questa funzione riflessiva danneggiata non fa parte dell’armamentario del mentale ma è piuttosto parte della vita affettiva, è l’affetto che è stato danneggiato, e “affetto” non è solo la parte attiva ma è anche e sopratutto l’esperienza della passività: la funzione riflessiva ha lasciato il campo a risposte automatiche.
Lo sprofondamento della funzione riflessiva e l’automatismo di una risposta di tipo pulsionale scatena una forza fuori dal controllo delle funzioni superiori, ma proprio per il suo essere fuori controllo non è solo negativa perché è accompagnata anche da una certa sensazione di piacere legata al senso di libertà assoluta, non sottoposta agli imbrigliamenti delle risposte differite e riflesse che costano certamente un dispendio energetico maggiore. È una «mancanza di freni ….. che esercita una sorta di cupa seduzione sul soggetto stesso» (ivi, p. 53). Questa concezione catastrofica della libertà, una libertà sfrenata di tipo orgiastico, possiede un’attrattiva oscura e potente, una dimensione traumatofilica di cui in terapia occorre tenere conto. Con un’esperienza traumatica si assiste a una profonda discontinuità del senso dell’essere, il soggetto perde il contatto con se stesso e con il resto del mondo, compare un senso di estraneità di sé a sé e di sé all’altro esterno: è l’identificazione con il trauma, un’identificazione traumatica, connotata da un tono interamente passivo, punto di arrivo di un percorso sviluppatosi in forma di automatismo; la vita del mondo del traumatizzato si svolge in un passato che non è passato perché continua a essere presente con la perdita conseguente di prospettive future perché l’intera vitalità è assorbita da quell’esperienza traumatica paragonabile alla forza di attrazione esercitata dai buchi neri (Correale 2000). Sono andati perduti i legami simbolici, quei nessi che costruiscono il mondo in cui viviamo. Con l’eco di Baudelaire.
Il protagonista di un brevissimo racconto di Giacomo Pezzano è un giovane la cui vita è stata sconvolta da un incidente automobilistico che ha segnato profondamente, anche nel corpo, la sua vita. Gli eventi che lasciano il segno non sono quelli che scegli attivamente ma quelli che ti cadono addosso e che tu passivamente subisci, ma questi sono anche gli eventi più trasformativi perché «ti costringono a fare i conti con la tua passività, quindi con il tuo essere fragile di quando sei bambino e dipendente ma anche di quando sei adulto e conservi la tua umanità fragile che ti accompagna per tutta la vita: siamo mortali» (Pezzano 2021).
Nelle esperienze traumatiche la nuova figura, la nuova forma identitaria nasce dalla passività e dall’impossibilità dell’altrimenti: è la passività dell’impossibile. L’impossibile fuggire di Dafne che configura l’unica possibile forma, una nuova forma identitaria che ha un suo preciso mondo simbolico di riferimento; l’impossibile evitare che l’incidente automobilistico fosse realmente accaduto, riportando indietro il tempo come una moviola: è anche un nuovo linguaggio simbolico che si deve creare intorno a quell’evento che ha assorbito l’intero flusso vitale, per cui non si può fingere che non sia accaduto; si tratta di recuperare proprio la capacità simbolica del linguaggio, proprio quella mostruosità evolutiva che caratterizza l’umano.
Occorre che la persona traumatizzata, confrontandosi con l’impossibile e acquisendo anche questa sua impossibilità come parte integrante del proprio Io riesca così a collocare il fatto in quel passato che gli compete e che non è il presente, ma che comunque rimane come presente nella forma della memoria, del ricordo. Ma il fatto traumatico può diventare memoria solo se riconosciuto per ciò che è stato e per le conseguenze che ha portato, e solo se si è stati così capaci di acquisire la nuova forma cicatrizzata che non è il ripristino della situazione antecedente.
Per continuare ad essere se stessi e non alienarsi da sé occorre trasformarsi in modo radicale, non solo in superficie, perché radicale e profonda è stata la ferita inferta, occorre una nuova forma, estranea all’antica. Ogni dato effettivo, ogni fatto ha un contorno che lo circonda, ma credere che tutto possa essere ancora possibile rasenta – dice Malabou – una «furia distruttrice», perché, e qui viene uno dei punti centrali del suo pensiero, sono gli accidenti che configurano l’essenza.
E vorrei concludere con alcune prospettive, che rimangono aperte, che Malabou ha lanciato sempre nella conferenza all’IISF, instaurando un confronto tra le neuroscienze di Joseph LeDoux o di Thomas Metzinger con gli scritti sulla soggettività di Michel Foucault.
Il neuroscienziato e il filosofo sembrano partire dalle medesime premesse: nel sé sinaptico la soggettività è tutta iscritta all’interno delle sinapsi cerebrali e la duplicazione del soggetto nel rapporto di sé con sé è una pia illusione; il soggetto non è trasparente a se stesso e se posso vedere attraverso la finestra non posso però vedere la finestra attraverso cui vedo. Per entrambi l’identità della soggettività non è un’essenza ma un fascio di relazioni. Ben diverso tuttavia è considerare il fascio di relazioni come sinapsi cerebrali, secondo LeDoux, o come sintesi soggettive per Foucault.
Se è vero che l’idea di poter dire “io”, prospettando se stessi di fronte a sé, è una vera e propria illusione, differente è il ruolo che gioca questa “illusione” nei due studiosi. Di fronte al tribunale della ragione scientifica l’illusione è il tratto da ridimensionare e cancellare nel suo contrapporsi alla “verità”. Per la ragione foucaultiana è proprio la forza di questo spazio illusionale che mi fa essere ciò che sono.
La condizione umana è proprio quella per cui non possiamo accedere alla nostra origine ma siamo capaci di costruirci plasticamente come soggetti, perché le sintesi, al contrario delle sinapsi, hanno al loro interno quell’impossibile che le rende uniche e specifiche, e che rende noi umani.
Bibliografia
Correale A. 2010, La difficile differenziazione dalla identificazione traumatica: la forza
gravitazionale del trauma, Comprendre n° 20.
Damasio A. 1995, L’errore di Cartesio, Adelphi, Milano.
Deacon T. 2001, La specie simbolica. Coevoluzione di linguaggio e cervello, Giovanni Fioriti,
Roma.
Lingiardi V. 2018, Diagnosi e destino, Einaudi, Torino.
Malabou C. 2019, Ontologia dell’accidente. Saggio sulla plasticità distruttrice, Meltemi,
Milano.
Pezzano G 2021, Ricostruire. Eventi che lasciano il segno, IISF Press, Napoli.